Viaggi transatlantici – La grande trasvolata del dirigibile britannico R34

 

 

Il 6 luglio 1919 l’Airship britannico R-34 atterra a New York, portando a termine la prima traversata dell’Oceano Atlantico su di un dirigibile. Per gli inglesi era conosciuto come “Tiny”, che tradotto significa “piccolo”, ma piccolo non lo era affatto. Le cronache dell’epoca dicono che fosse grande come una corazzata e lo paragonano alla “Dreadnought”, entrata in servizio della Royal Navy britannica nel 1906 e, come esprimeva il suo nome, non temeva nulla. Il “Tiny” aveva una lunghezza complessiva da prua a poppa di 643 piedi, il doppio di un campo di calcio. La ditta di William Beardmore and Company Ltd. di Inchinnan, vicino a Glasgow, iniziò la fabbricazione del modello R34 il 9 dicembre 1917 per completarlo in poco più di un anno. Ogni accortezza moderna era stata adottata, persino la verniciatura dell’intera struttura serviva a prevenire la corrosione atmosferica che la “nave” avrebbe incontrato sull’Atlantico. La cabina di controllo era fornita di vetri di sicurezza “Triplex”. Ognuno dei cinque motori era un “Maori” di Sunbeam: un nuovo modello progettato per la Wolverhampton da un francese, Louis Coatalen, e destinato esclusivamente all’uso dei dirigibili. Non era, però, un motore Rolls Royce poiché alla fine della guerra nessuno dei motori Rolls Royce era disponibile in quanto prodotti solo per essere installati sugli aerei militari. Anche se il dirigibile R34 fu progettato durante il periodo bellico, non fu mai equipaggiato con armamento completo. Avrebbe potuto montare un considerevole carico di bombe ed anche un armamento pesante destinato alla difesa contro gli Zeppelin tedeschi. Nelle pagine del blog in inglese è possibile scorrere una serie di informazioni tecniche e le diverse prove che precedettero il viaggio transatlantico. La sera del 17 giugno 1919, ad esempio, l’R34 fu fatto sollevare per una prova adeguata prima del volo principale. L’idea era di fargli esplorare le coste baltiche tedesche. La nave svolse egregiamente le sue funzioni e volò anche in Danimarca, Norvegia e Svezia. Atterrò secondo le previsioni la mattina del 20 giugno dopo un viaggio di 54 ore. Il ministero dell’Aeronautica prese così la decisione di portare l’R34 negli Stati Uniti, e fu prevista anche l’alternativa di una rotta costiera verso nord nel caso in cui la nave aerostatica avesse esaurito il carburante. Due navi da guerra, la Renown e la Tigre, avrebbero seguito il volo come mezzi da rifornimento nel caso in cui il dirigibile si fosse trovato in difficoltà, supportando la trasvolata con rapporti meteorologici. Fu concordato che se si fosse trovato in difficoltà, l’R34 sarebbe stato rimorchiato. I piani organizzati a New York consistevano nella fornitura di idrogeno. Inoltre, un gruppo di 8 aviatori esperti fu inviato in America per organizzare e addestrare il personale di terra americano.

Il 1 ° luglio 1919 il dirigibile fu gassato al limite e caricato a pieno regime, e a fine serata era pronto. L’ora di partenza ufficiale è stato fissato alle 2:00 (GMT) del 2 luglio. Le previsioni del tempo erano favorevoli e, con qualche anticipo, alle 1.42 del mattino (GMT) fu dato il segnale di rilascio. L’R34 si alzò lentamente verso il nebbioso cielo notturno. La vita a bordo nei giorni successivi si è svolta secondo il programma prefissato, così i pasti e i tempi di riposo concordati. L’intrattenimento dell’equipaggio era assicurato da varietà di musiche jazz, che potevano essere ascoltate dal grammofono di bordo. Il viaggio procedette a un ritmo costante e una routine standard. Sembra che si sia verificato un solo problema. Alle 14.00 del primo giorno si scoprì che un clandestino era riuscito a salire a bordo del dirigibile e a nascondersi nel magazzino. Il numero delle persone a bordo non doveva superare le trenta unità, per necessità di peso e d’ingombro. Nonostante le disposizioni, due ore prima del volo, William Ballantyne riuscì a nascondersi approfittando dell’oscurità. Era uno degli addetti che aveva lavorato a terra, tant’è che portò con sé anche la mascotte dell’equipaggio, un gattino tabby chiamato “Whoopsie”. Le condizioni anguste e l’odore del gas, molto forte nella zona del magazzino, fecero insorgere una forte nausea, cosicché Ballantyne fu costretto ad uscire dal nascondiglio. Fu portato di fronte allo stato maggiore, ma fu deciso che nulla si poteva fare al riguardo. I presenti convennero che se avessero sorvolato la terra ferma, Ballantyne sarebbe stato espulso fuori bordo con il paracadute; ma dal momento che il prossimo approdo sarebbe stato in America, non si poteva che trattenerlo a bordo. Ballantyne fu impegnato come cuoco e per quanto riguarda il secondo clandestino, il gattino Whoopsie, servì ad offrire ulteriormente svago e conforto ai membri dell’equipaggio. Con un tempo instabile la traversata proseguì fino in America. L’R34 atterrò alle 9.54 del mattino del 6 luglio, dopo 108 ore e 12 minuti di volo. Quando fu revisionato il serbatoio, si constatò che c’erano 140 litri di carburante, sufficienti solo per altre 2 ore di volo a potenza ridotta. Il dirigibile sostò in America per 3 giorni prima di intraprendere il volo di ritorno. Durante questo periodo, come è facile immaginare, i membri dell’equipaggio hanno partecipato a una numerosa serie di eventi acclamati per la traversata storica.

 

La mappa della rotta del dirigibile

 

 

LE TRAVERSATE TRANSATLANTICHE sono passaggi di persone e merci attraverso l’Oceano Atlantico tra l’America e l’Europa o l’Africa. I voli transatlantici superarono i viaggi a bordo dei transatlantici come modo predominante di attraversare l’atlantico nella metà del ventesimo secolo. Nel 1919 il Curtiss NC-4 divenne il primo aeroplano ad attraversare l’Atlantico seppur con più scali. Appena un anno dopo l’aereo inglese Vickers Vimy pilotato da Alcock e Brown fece il primo volo transatlantico senza scali da Terranova all’Irlanda. Sempre nel 1919 gli inglesi furono i primi ad attraversare l’Atlantico a bordo di un dirigibile. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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AIRSHIPSONLINE.COM

R34 – The Record Breaker

Adriano Olivetti – A Ivrea il personal computer prima di Steve Jobs

 

Adriano Olivetti

 

«Il sogno di Olivetti è fare di Ivrea la capitale della cultura industriale italiana. Un progetto in cui far confluire cristianità e umanesimo, le scienze sociali e l’arte, la tecnologia e la bellezza». Scrive così Aldo Cazzullo nell’articolo del Corriere della Sera che presentiamo nel FLIP di oggi per commentare la notizia che «Ivrea, la città ideale della rivoluzione industriale del Novecento, è il 54esimo sito Unesco italiano. Un riconoscimento che va a una concezione umanistica del lavoro propria di Adriano Olivetti». Questa volta a parlare è il Ministro dei beni e delle attività culturali, Alberto Bonisoli, che ha annunciato l’iscrizione di “Ivrea Città Industriale del XX Secolo” nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO. La decisione è stata presa a a Manama in Bahrei durante i lavori del 42° Comitato del Patrimonio Mondiale, iniziati il 24 giugno e che termineranno il 4 luglio. Sin da ora Ivrea porta l’Italia in testa alla lista mondiale dei siti Unesco, organismo culturale dell’Onu: 54 sono quelli che rappresentano il nostro Paese, 52 quelli appartenenti alla Cina, 47 alla Spagna. Perché Ivrea? Con la fondazione della prestigiosa fabbrica di macchine per scrivere fondata nel 1908 da Camillo Olivetti, la città di Ivrea diviene un vero e proprio progetto industriale, sociale e culturale del XX secolo. Si sperimentano innovative idee sociali e architettoniche connesse a visionari processi industriali niente affatto scissi dal benessere della comunità locale. Questo spirito innovativo è colto nella sua essenza dalla scheda ufficiale che possiamo leggere per intero sulle pagine ufficiali dell’Unesco: «Il sito, che si trova in Piemonte e si estende per circa 72.000 ettari, è costituito da un insieme urbano e architettonico, di proprietà quasi esclusivamente privata, caratterizzato da 27 beni tra edifici e complessi architettonici, progettati dai più famosi architetti e urbanisti italiani del Novecento. Si tratta di edifici costruiti tra il 1930 ed il 1960 e destinati alla produzione, a servizi sociali e a scopi residenziali per i dipendenti dell’industria Olivetti. L’insieme rappresenta l’espressione materiale, straordinariamente efficace, di una visione moderna dei rapporti produttivi e si propone come un modello di città industriale che risponde al rapido evolversi dei processi di industrializzazione nei primi anni del ‘900».

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ADRIANO OLIVETTI (Ivrea, 11 aprile 1901 – Aigle, 27 febbraio 1960) è stato un imprenditore, ingegnere e politico italiano, figlio di Camillo Olivetti (fondatore della Ing C. Olivetti & C, la prima fabbrica italiana di macchine per scrivere) e Luisa Revel e fratello degli industriali Massimo Olivetti e Dino Olivetti. Uomo di grande e singolare rilievo nella storia italiana del secondo dopoguerra, si distinse per i suoi innovativi progetti industriali basati sul principio secondo cui il profitto aziendale deve essere reinvestito a beneficio della comunità. Per tutelare e promuovere la figura di Adriano Olivetti e il suo pensiero gli eredi hanno costituito nel 1962 la Fondazione Adriano Olivetti con sede a Roma e a Ivrea. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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CORRIERE DELLA SERA

Ivrea patrimonio Unesco, tecnologia e umanesimo nella città ideale di Olivetti

Dipinti cubisti – Non assomigliavano a niente, ma con la guerra assomigliarono a tutto

Alighiero Boetti, 1966, tela mimetica, cm 170 X 270

Tutti noi abbiamo sotto gli occhi le scene filmiche di schiere di fucilieri che si muovono sui campi di battaglia compatti ed allineati, quasi in parata. Attendiamo solo che i colpi dei mortai portino scompiglio nella compagine e, subito dopo, ecco l’assalto della cavalleria. Gli eserciti dell’una o dell’altra parte hanno divise dai colori sgargianti, ben distinguibili dal terreno verdeggiante delle colline. Armi lucenti al sole, copricapi audaci in quanto ad evidenza: pelo d’orso, piume d’aquila o di gallo cedrone, crini di cavallo. A differenza degli eserciti popolari raccogliticci e disomogenei, l’uniforme (lo dice la parola stessa) serve ad impressionare il nemico, serve a manifestare potenza bellica, ordine e disciplina tipica di chi è stato addestrato a scontrarsi, chi nel corpo a corpo non risparmierà di assestate colpi cruenti. L’uniforme moderna nasce nel secolo diciassettesimo, sotto la spinta necessaria di rendere immediatamente riconoscibili i nemici (pericolosi se avvistati all’ultimo minuto) dagli amici, e fra questi ultimi distinguere gli appartenenti al proprio corpo di truppa, dai quali nella mischia del combattimento all’arma bianca ci si potrebbe ritrovare isolati. Occorre sicuramente riconoscere i superiori, investiti dei vari gradi militari, da cui si attendono gli ordini opportuni che possono rendere salva la vita. Tutto questo nella confusione del combattimento e nella nebbia prodotta dalle schioppettate dei fucili. È un modo di pensare che arriverà fino alla prima guerra mondiale.

Le belle divise colorate attraggono le folle esultanti durante le sfilate, richiamano le nuove reclute all’arruolamento, e quando si avvicina la paura della battaglia riducono i tentativi di diserzione, poiché i renitenti si distinguono ad occhio nudo tra la gente. Ma la guerra di trincea cambia tutto e sotto i colpi di cannone della linea nemica occorre mascherarsi piuttosto che evidenziarsi. Le divise assomigliano sempre più alla terra fangosa e al verde umido della boscaglia. Ma non basta ancora, perché per sfuggire ai cecchini abituati a percepire il minimo sussulto necessita mimetizzarsi con l’ambiente circostante, camuffarsi nella natura, assumere il colore macchiato dei fogliami con le tonalità del paesaggio nel quale si combatte. Ecco dunque che l’uniforme “si uniforma” alle differenti gradazioni di nero, verde, kaki, marrone. Meglio se tutto questi colori si mischiano insieme, così alla tinta unita si preferiscono le chiazze della mimetica. Perché ora il rischio non proviene soltanto dal fuoco d’artiglieria nelle retrovie della trincea avversaria o dai colpi a ripetizione della mitragliatrice dal bunker posto su di una collinetta. Ora la morte, per la prima volta, viene anche dal cielo e le probabilità di essere colpiti da un biplano non sono remote.

La storia racconta che sono stati i francesi a svolgere il ruolo delle “avanguardie del camuffamento” militare durante la Grande Guerra e che si sono avvalsi degli impasti coloristici delle “avanguardie artistiche”. Nel 1915 personalità delle arti figurative sono, infatti, chiamate a fare parte della sezione speciale dei “camoufleurs”, sotto il comando di Lucien-Victor Guirand de Scevola. L’artigliere di seconda classe Lucien-Victor Guirand de Scévola aveva visto ridotte in polvere fior di postazioni a Metz. Così dal momento che da civile era uno dei pittori noti per avere esposto al “Salon des artistes français”, pensa di camuffare una postazione di cannone con una tela dipinta. In guerra i tempi sono strettissimi: Il 12 febbraio 1915 il generale Joffre fonda la “Section de Camouflage” di stanza ad Amiens. A maggio si piantano “alberi”, con periscopi all’interno, camuffati con vere cortecce, per l’osservazione dei movimenti di trincea durante la Battaglia di Artois. Alla fine dell’anno De Scévola riceve i gradi di comandante del Corpo di Camuffamento e comincia ad arruolare artisti, tanto che nel corso del 1917 la Francia ne assomma più di 3mila. Qualche nome? Jacques Villon, André Dunoyer de Segonzac, Charles Camoin e Charles Dufresne. Spennellano tutto quello che possono: veicoli e strutture. La tecnica si diffonde anche a navi e aerei. Il cubista André Mare è mandato a collaborare su vari fronti (anche quelli alleati inglesi e italiani), tanto da essere ferito da uno shrapnel in Piccardia, mentre monta uno dei suoi pali di osservazione considerati «invisibili».

Nella sua Autobiography of Alice B. Toklas, Gertrude Stein scrive che quando Picasso, dopo avere dato una soluzione per nascondere le ariglierie riconoscibili nelle perlustrazioni aeree, vede per la  prima  volta un cannone in camouflage mimetico, esclama: «C’est nous qui avons fait ça!», siamo stati noi a fare questo! E intendeva “noi cubisti”. Commentava il capitano-pittore De Scévola: «Allo scopo di deformare totalmente l’aspetto di un oggetto io dovevo utilizzare i mezzi che i cubisti invece usavano per rappresentarlo» e sottolineava quasi cinquant’anni dopo il critico d’arte Jean Paulhan, direttore della “Nouvelle Revue Française”: «Quei dipinti accusati di non assomigliare a niente, nel momento del pericolo furono i soli a essere capaci di assomigliare a tutto».

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IL CUBISMO è un’espressione con la quale si è soliti rappresentare una corrente artistica e culturale ben riconoscibile, distinta e fondante rispetto a molte altre correnti e movimenti che si sarebbero successivamente sviluppate. Tuttavia, il cubismo non è un movimento capeggiato da un fondatore e non ha una direzione unitaria. Il termine “cubismo” è occasionale: nel 1908 Henri Matisse osservando alcune opere di Braque, composte da “piccoli cubi” le giudicò negativamente, e Louis Vauxcelles l’anno dopo le chiamò “bizzarrie cubiste”. Da allora le opere di Picasso, Braque e altri pittori vennero denominate cubiste. Si può tuttavia individuare in Paul Cézanne, un pittore che nelle sue solitarie sperimentazioni è stato in grado di prefigurare quelli che saranno lo stile, la visione e le tematiche cubiste. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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IL CAMUFFAMENTO MILITARE si riferisce a qualsiasi metodo utilizzato per rendere meno rilevabili le forze militari alle forze nemiche. In pratica, è l’applicazione di colori e materiali utili a nascondere all’osservazione visiva (criptismo) o a far sembrare qualcos’altro (mimetismo) uniformi, mezzi e attrezzature militari. Il camuffamento militare venne utilizzato per la prima volta nei primi anni del 1800 dalle unità di cacciatori e fucilieri, che indossavano uniformi verdi o grigiastre per nascondersi al nemico. Prima di allora, gli eserciti tendevano a portare colori vivaci e audaci, per impressionare l’unità nemica, ma anche per agevolare l’identificazione delle unità militari nella nebbia prodotta dalla polvere da sparo dei fucili, per attrarre le nuove reclute, e per ridurre la diserzione. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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AVVENIRE

Il camouflage, l’arte della guerra secondo i cubisti

Paul Klee – L’arte rende visibile ciò che non sempre lo è

 

Paul Klee, Kairouan, davanti alla porta (1915, olio su tela)

 

Si è spento il 29 giugno 1940 uno dei maggiori esponenti dell’astrattismo, il pittore tedesco Paul Klee di origine svizzera. A fine gennaio del 2018 si è chiusa una mostra a lui dedicata dalla Fondazione Beyeler di Basilea, in Svizzera. “Un centinaio di opere che superano la forma e in cui si ritrovano le peggiori angosce del Novecento”, apre così la pagina de “la Lettura”, il supplemento domenicale del Corriere della Sera, che nell’edizione cartacea affida alla penna sottile di Arturo Carlo Quintavalle di commentare l’esposizione e alla pagina web (che abbiamo scelto per FLIP) brevi velocissime note di Marco Bruna. Cosa dice Quintavalle? «Sono i segni la chiave per capire il linguaggio di Klee e lo mostrano le opere nei quattro capitoli della rassegna “Paul Klee. The Abstract Dimension”: Natura, Architettura, Musica, Segni; segni che poi, alla fine del percorso dell’artista, assumono un forte significato politico». L’astrattismo svolge un ruolo centrale nell’opera pittorica di Klee; nonostante ciò, non lo ha mai adottato come unica forma d’espressione, dando ai segni la libertà di evocare e di rappresentare il proprio mondo delle forme e delle idee. La sua personalità è dotata di innumerevoli interessi che lo portato a spaziare ben oltre alle discipline artistiche, per approdare alla filosofia, alle scienze naturali, come alla poesia e immancabilmente alla musica. Lontano da ogni intento di mimesi della natura, adottata sotto aspetti differenti dalle tutte le correnti che lo hanno preceduto, Klee approfondisce i differenti risvolti della creatività, perché con l’arte può accostarsi proprio alla natura, ma nel tentativo di svelare le leggi della creazione. Passa perciò dal figurativo all’astratto, conservando nelle proprie immagini una levità e una leggerezza affidate al richiamo della memoria.

«Ma di quale memoria si tratta? – si chiede Quintavalle –  Sempre in mostra un acquarello Kairouan, davanti alla porta (1914) ci offre una risposta: il pittore scompone i colori, il giallo e il bruno delle dune, il cielo azzurro che entra nei volumi; Klee dunque ha visto a Parigi i dipinti del Cubismo analitico di Braque e Picasso, ha visto Robert Delaunay e le sue Tour Eiffel, i suoi Dischi simultanei e lì, a Parigi, non in Tunisia, come racconterà più tardi, “scopre” il colore». Tutto questo non è casuale, ma il prodotto di una stratificazione lenta e progressiva. È figlio di due musicisti e sposa Lily Stumpf, anche lei musicista; è orientato verso la pittura, ma entra in contatto con le avanguardie storiche soltanto dopo i ventisette anni, quando espone alle mostre internazionali della Secessione a Monaco (1906) e poi a Berlino (1909); quando nel 1911 conosce gli artisti del “Cavaliere Azzurro” (Alfred Kubin, August Macke, Wassily Kandinskij e Franz Marc). Nella mostra di «Der Blaue Reiter» (1912) espone ben 17 lavori, per cui Klee è considerato a tutti gli effetti appartenente alla corrente. Nel corso dell’anno conosce a Parigi Robert Delaunay, pittore cubista, ed è con lui che si avvia ad esplorare colore e luce. Il viaggio a Tunisi, nel 1914, è determinante. Da questo momento Klee trova le basi solide della sua attività artistica; ma deve battere il passo ancora una volta, perché è richiamato alle armi con lo scoppio del primo conflitto mondiale. Dal 1918 in avanti la strada intrapresa è in ascesa non solo perché ormai esprime la completezza del proprio stato d’animo, ma perché si apre un’occasione irrinunciabile e fondante. Walter Gropius lo chiama ad insegnare alla Staatlitches Bauhaus, scuola di architettura, arte e design.

È il 1920, Klee ha modo di organizzare una vera e propria sistematica della propria visione artistica. Dieci anni fertili: dal 1921 alla Bauhaus di Weimar, poi a Dessau dal 1926, fino a quando è costretto a interrompere il lavoro tutto incentrato sulla sua ricerca e pressoché estraneo ad ogni attività sociale e politica. I nazisti spingono per la chiusura della scuola. Quando il sindaco, mette ai voti la cessazione delle attività della Bauhaus, le componenti socialdemocratiche che fino ad allora l’hanno sostenuta si astengono, facendo prevalere il giudizio negativo condiviso dalla cittadinanza, conforme alla nuova e trionfante cultura del nazismo. Il Bauhaus cessa ogni attività a fine settembre del 1932. Klee assume la docenza all’Accademia di Düsseldorf e non segue Mies van der Rohe che a Berlino apre il “Libero istituto per l’insegnamento e la ricerca”. Il nuovo Istituto si manterrà non più con i contributi pubblici, ma con le sole rette degli studenti. L’anno successivo la Bauhaus chiude definitivamente ed anche Klee è costretto alle dimissioni dall’Accademia di Düsseldorf. Il regime giudica come “arte degenerata” la sua produzione e quella degli artisti che hanno condiviso il suo stesso percorso artistico. Decide di trasferirsi definitivamente in Svizzera, nel Canton Berna dove era nato a Münchenbuchsee nel 1879. Continua a dipingere nonostante le sue pessime condizioni di salute. Scrive Quintavalle di questi ultimi penosi anni: «Ormai la pittura di Klee diventa sempre più cupa e il suo ultimo racconto è una rivolta contro gli spettri del nazismo; basta vedere un dipinto rimasto senza titolo Griglia e linee ad onda attorno (1939) dove il significato è dato dal rosso dominante e dalla figura, un volto, su cui incombe, come allora sull’Europa, una griglia, una prigione nera. Il segno di Klee, tanto diverso rispetto alle origini, adesso racconta l’angoscia. Klee, dunque, impegnato fino alla morte, nel 1940, anche se consunto da una dura malattia, contro la trionfante Germania nazista».

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ERNST PAUL KLEE (Münchenbuchsee, 18 dicembre 1879 – Muralto, 29 giugno 1940) è stato un pittore tedesco nato in Svizzera da padre tedesco e madre svizzera, ambedue musicisti. Figura eminente dell’arte del XX secolo, nel periodo della sua formazione Paul Klee si occupò di musica, poesia, pittura, scegliendo infine quest’ultima forma di espressione come ambito privilegiato e dando così inizio ad una tra le più alte e feconde esperienze artistiche del Novecento. Si mantenne comunque anche con i proventi derivati dalla sua attività di strumentista presso l’Orchestra di Berna. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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LA LETTURA/CORRIERE DELLA SERA

Paul Klee, la scoperta del colore

Vincent Van Gogh – Quando rubarono tre delle sue tele da dieci miliardi di lire

Nella notte tra mercoledì e giovedì del 28 giugno 1990 a Den Bosch, nei Paesi Bassi, tre dipinti di Vincent van Gogh spariscono senza che il sistema di allarme entri in funzione. Sono tre opere, olii su tela del cosiddetto periodo olandese, dipinte negli anni Ottanta dell’Ottocento: “Contadina seduta” di proprietà dello Stato, “Il mulino di Gennep” appartenente ad una collezione privata ma affidata al museo, e “Contadina che zappa vista di spalle” di proprietà del museo. I tre quadri sono considerati dagli esperti “opere minori” del pittore. Se così non fosse stato sarebbero rimaste attaccate alla parete, dal momento che non è la prima volta che opere di Vincent van Gogh sono rubate da musei olandesi. Tuttavia, data la loro celebrità, si sono rivelate invendibili, se non a qualche collezionista disposto a chiuderle in un caveau piuttosto che esporle nella propria residenza. Così, dopo qualche mese, le autorità hanno sempre trovato il modo di riportarle a casa in cambio di un occultato riscatto. Le opere trafugate a Den Bosch, invece, riguardano il periodo iniziale dell’attività artistica di Vincent. È il periodo dei “mangiatori di patate”, quando il pittore abita nel piccolo borgo di Neunen e dipinge contadini e artigiani. Vincent è nato da queste parti, a Zundert, nella provincia del Brabante Settentrionale. Clima inclemente, paesaggi aspri, orizzonti chiusi, volti orgogliosi e duri, profili asciutti: tutti elementi che hanno segnato la sua poetica dell’immagine. La relazione tra artista e luogo d’origine è delineata negli schizzi e nelle tele. Se escludiamo un introverso autoritratto con pipa del 1886, scorriamo nature morte, paesaggi, episodi di vita rurale, testimonianza una ispirazione legata alla vita degli ultimi che porterà van Gogh a creare quel capolavoro universale intitolato “I mangiatori di patate”. A questo periodo si riconducono anche tutti gli altri lavori esposti ed ammirati oggi a Den Bosch – che gli olandesi denominano ‘sHertogenbosch e noi italiani chiameremmo città ducale – cittadina nella quale nacque e morì un altro grandissimo pittore fiammingo: Hieronymus Bosch.

VINCENT WILLEM VAN GOGH (Zundert, 30 marzo 1853 – Auvers-sur-Oise, 29 luglio 1890) è stato un pittore olandese. Fu autore di quasi novecento dipinti e più di mille disegni, senza contare i numerosi schizzi non portati a termine e i tanti appunti destinati probabilmente all’imitazione di disegni artistici di provenienza giapponese. Tanto geniale quanto incompreso in vita, Van Gogh influenzò profondamente l’arte del XX secolo. Dopo aver trascorso molti anni soffrendo di frequenti disturbi mentali, si suicidò all’età di 37 anni. In quell’epoca i suoi lavori non erano molto conosciuti né apprezzati. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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LA REPUBBLICA

Il sistema d’allarme non scatta rubate tre tele di Van Gogh

Il Bancomat – Distribuisce denaro invece che barrette di cioccolato

 

«Non è facendo le scale che t’accorgi d’essere anziano e neanche dal fatto che dormi meno o che senti poco quando ti parlano. È di fronte al bancomat che la senilità si manifesta in tutta la sua spietatezza». La battuta spiritosa del conduttore radiofonico e televisivo Marco Presta, sintetizza una realtà tutta italiana: la difficoltà ad utilizzare i servizi automatici. Scrive il Sole 24 ore che in un anno un olandese usa strumenti di pagamento alternativi al contante più di 400 volte; un francese più di 300; un italiano soltanto 100. La stessa Bce, conferma che gli italiani pagano cash l’86% delle transazioni, e solo per il 14% usano bancomat, carte di credito, bonifici, Rid e assegni. Oggi, però, ci soffermiamo sull’invenzione e l’utilizzo dei primi bancomat, perché il 27 giugno del 1967 presso la Barclays Bank di Enfield Town, a nord di Londra, è stato installato il primo sportello automatico per il prelievo di contanti. Dunque, bancomat sì, ma per i prelievi, evitando lunghe file agli sportelli. Sorge la domanda: chi è stato quel geniale inventore che ha permesso di risparmiare… se non denaro, almeno tempo? Per la verità gli inventori sono due, uno fortunato e l’altro un po’ meno. Quello fortunato è John Shepherd-Barron, inventore scozzese che ha ideato il suo distributore automatico nel 1965; ma la storia comincia con l’inventore sfortunato, Luther George Simjian, un americano originario dell’Armenia, che ha brevettato il suo Bankograph nel lontano 1939. La macchina di Simjian viene installata dalla City Bank di New York per essere utilizzata durante gli orari di chiusura. Sei mesi dopo è smantellata perché pochissimi l’hanno utilizzata.

L’idea deve nascere al momento giusto, in sintonia con i tempi, che risentono in modo latente l’esigenza di una invenzione: un attimo prima non la condivide nessuno, un attimo dopo qualcuno ha già avuto l’idea. Non è stato così per John Shepherd-Barron. Il lampo inventivo gli è balenato mentre era immerso nella vasca da bagno: «Stavo pensando a un distributore di cioccolata, e immaginai di rimpiazzare le barrette con le banconote». Ventotto anni dopo il primo distributore meccanico di contanti, quello di Simjian, la società De La Rue di Barron installa la nuova macchina alla Barclays Bank di Londra. Non esistono ovviamente card magnetiche, per cui per procedere al prelievo occorre inserire nella macchina un voucher monouso, al quale è associato un numero identificativo. La prima operazione di prelievo è, dunque, eseguita il 27 giugno 1967. In Italia la macchina è installata, invece, nel 1976 dalla Cassa di Risparmio di Ferrara, grazie  al suo direttore, Alberto Pezzini, che l’ha scoperta nel corso di un congresso in Marocco. Il caso rimane isolato ancora per qualche anno. Nel 1982 la Cassa di Risparmio di Torino pubblicizza su “La Stampa” il servizio “Prontabanca”: «uno sportello per prelevare 24 ore su 24, ogni giorno, tutto il denaro che vi serve». Da quel momento tutti gli altri Istituti bancari si adeguano e finalmente nella primavera del 1983, danno vita ad un circuito unico nato dall’accordo iniziale di 275 banche nazionali. Il sistema prende nome di Bancomat, che sta per banco (variante di banca) e (aut)omat(ico). Un nome che ormai usiamo quale sinonimo di sportello automatico, tant’è che in inglese il sistema è identificato come ATM (acronimo di Automated Teller Machine), in francese come distributeur, in spagnolo cajero automático, in tedesco Geldautomat.

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APPROFONDISCI SULLA ENCICLOPEDIA TRECCANI ALLA VOCE: Bancomat

 

LO SPORTELLO AUTOMATICO, o cassa bancaria automatica e anche sportello automatico di banca, è il sistema per il prelievo automatico di denaro contante dal proprio conto corrente bancario, attraverso l’uso di una carta di debito nei distributori collegati in rete telematica, anche fuori dagli orari di lavoro degli istituti di credito e in località diverse dalla sede della banca presso cui si intrattiene il rapporto di conto corrente. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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DATAROOM/CORRIERE DELLA SERA

Perché pagare in contanti non conviene a nessuno

Joanne K. Rowling – Bisogna essere cauti coi desideri, potrebbero avverarsi

 

 

Nel 2017 è diventato maggiorenne, poiché “Harry Potter and the Philosopher’s Stone” ha compiuto vent’anni da quando il 26 giugno 1997 è stato pubblicato per la prima volta nel Regno Unito. È il primo volume di una saga che ha messo in subbuglio il mondo della letteratura fantasy. Ha formato una nuova generazione di giovani lettori, ma anche di meno giovani. Naturalmente ha sconvolto la vita dell’autrice, Joanne K. Rowling, che ha appassionato milioni di fan di ogni età, rendendola ricchissima, tanto da superare persino le entrate della regina Elisabetta. Sulla nascita della “pietra filosofale” si può raccontare di una scrittrice disoccupata, che abita ad Edimburgo, scrive in un bar sotto casa perché non ha abbastanza denaro per pagare i riscaldamenti. Ha una bambina piccola, Jessica, nata nel 1993 dal matrimonio con il giornalista portoghese Jorge Arantes, dal quale ha poi divorziato. L’idea della storia fantastica è nata tre anni prima, quando Joanne fa in treno la spola con Manchester dove programma di trasferirsi con il fidanzato. Durante uno dei suoi viaggi concepisce il personaggio di Harry Potter, il maghetto con la cicatrice a forma di fulmine sulla fronte. Rientra a casa e quella sera stessa comincia a scrivere le prime pagine, che non compariranno mai sull’edizione finale del libro, ma che serviranno comunque ad avviare il racconto. Dopo la morte della madre e la nascita di Jessica, Joanne spedisce a varie case editrici le bozze del libro. È un rito che bene conoscono gli scrittori. Riceve come risposta ben dodici rifiuti prima di scovare un agente che presenta la sua “pietra filosofale” alla casa editrice Bloomsbury, la quale, lungimirante, accetta di pubblicare il romanzo, che diviene un evento editoriale.

Eppure, all’atto della pubblicazione l’editore mostra qualche perplessità, perché consiglia di usare uno pseudonimo aggiungendo davanti al cognome Rowling due lettere “misteriose”. Ne viene fuori J.K. Rowling che serve a far credere che il libro è scritto da un uomo, quando in effetti “J.” sta per Joanne e “K.” sta per Kathleen, nome della nonna paterna. Non c’è bisogno, però, di altri marchingegni perché “Harry Potter and the Philosopher’s Stone”, da subito, si trasforma in un esplosivo fenomeno sociale di livello planetario. In Italia ad afferrare le possibilità di successo del maghetto dai prodigiosi poteri è la Salani, che traduce il testo e lo edita con il titolo di “Harry Potter e la pietra filosofale”. È il 29 maggio del 1998, undici mesi dopo l’uscita dell’edizione inglese. Anche nel nostro Paese diventa un’esplosione di vendite e di ristampe. L’avventura letteraria, nata dalla fantasia di Joanne K. Rowling, si è trasformata col tempo in una saga in 7 volumi che ha venduto, a conti fatti e in continuo aumento, 450 milioni di copie in tutto il mondo, di cui 11 milioni soltanto in Italia. La saga è pubblicata in 200 Paesi e la troviamo tradotta in 79 lingue. Nel Regno Unito i primi quattro volumi vedono la luce un anno dopo l’altro e gli altri tre a distanza di due anni ciascuno. Nelle librerie italiane approdano, in genere, otto mesi dopo. A caricare le attese per ogni evento editoriale si aggiungono le versioni cinematografiche. Il primo film, prodotto dalla Warner, è del 2001; protagonista nella parte di Harry Potter è il giovanissimo Daniel Radcliffe. Scoppia una vera e propria Potter-mania che tiene incollati i fan alle pagine dei romanzi ambientati soprattutto nella Hogwarts School, in Scozia, dove si insegnano magia e stregoneria. Le scene si svolgono in un castello al centro di una catena montuosa, raggiungibile esclusivamente da parte degli studenti dotati di poteri magici, prendendo il treno Espresso per Hogwarts da un binario del tutto particolare della stazione di King’s Cross a Londra: quello che porta il numero di 9 e ¾. Da questo binario qualsiasi lettore – anche quello più riluttante alla lettura e per nulla dotato di poteri magici – può iniziare il viaggio nel mondo fantastico di Harry Potter.

 

JOANNE ROWLING (Yate, 31 luglio 1965) è una scrittrice, sceneggiatrice e produttrice cinematografica britannica. La sua fama è legata alla serie di romanzi di Harry Potter, che ha scritto firmandosi con lo pseudonimo J. K. Rowling (in cui “K” sta per Kathleen, nome della nonna paterna), motivo per cui la scrittrice è spesso indicata impropriamente come Joanne Kathleen Rowling. Nel 2013 pubblica la sua prima opera con lo pseudonimo di Robert Galbraith[3]. Nel 2011 è stata inserita da Forbes nella classifica delle donne più ricche del Regno Unito. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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HARRY POTTER E LA PIETRA FILOSOFALE (titolo originale in inglese: Harry Potter and the Philosopher’s Stone) è il primo romanzo della saga high fantasy Harry Potter, scritta da J. K. Rowling e ambientata principalmente nell’immaginario Mondo magico durante gli anni Novanta del XX secolo. Ideato proprio nei primi anni Novanta, Harry Potter e la Pietra Filosofale fu pubblicato poi nel 1997. Tradotto in 77 lingue, tra cui il latino e il greco antico, resta una delle più popolari opere letterarie del XX secolo con una vendita globale di 120 milioni di copie. Nel 2001 ne è stato tratto un adattamento cinematografico distribuito da Warner Bros e diretto da Chris Columbus, che ha incassato più di 974 milioni di dollari al botteghino mondiale, inserendosi così al trentunesimo posto nella classifica dei film di maggiore incasso della storia del cinema. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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LA STAMPA

Harry Potter, un mito nato 20 anni fa. Il 26 giugno 1997 usciva “La pietra filosofale”

Marcel Proust – Ho bisogno di essere vezzeggiato e viziato più che ammirato

 

 

il 25 giugno 1887 Marcel compilò il suo primo «Questionario di Proust». Per la verità il futuro scrittore non sapeva che stava per rispondere ad una lista di domande che le persone avrebbero ricordato come «Questionario di Proust» e conosciuto più dei suoi stessi libri, spesso citati che letti. Il Questionario, quanto meno, si scorre in pochi minuti. Divenne presto un gioco di società in voga nei salotti parigini di fine XIX secolo. Non lo ha inventato Proust, ma lo ha senz’altro reso celebre, condividendo il gioco. La storia andò così: alla festa di compleanno di Antoinette Felix-Faure (figlia del futuro presidente della Repubblica francese Félix Faure) il coetaneo tredicenne Marcel è invitato a rispondere alle domande. La ragazzina porge agli amici presenti una serie di interrogativi riportati su di un album in lingua inglese ricevuto in regalo e intitolato An Album to Record Thoughts, Feelings, etc. (Un album per conservare pensieri, sentimenti, ecc.). Marcel preferisce farlo per iscritto. Il testo di questo primo questionario rivela molti aspetti del carattere del piccolo Marcel e naturalmente fornisce un quadro sui divertimenti di società dei giovani nel corso della Belle Epoque. È oggi improbabile una festa di tredicenni interrogati sulle proprie virtù preferite, sui pittori o sui personaggi storici. Non si azzarderebbero neppure i loro stessi insegnanti, in sede d’esame di scuola media, a chiedere cose del genere, perché poi dovrebbero rinunciare a promuoverli con dieci e lode, volendo classificare gli allievi sul podio dei geni e loro su quello dei talent scout. Marcel, invece, dalle risposte al questionario, esce come un figlioletto di mamma, dolce e sognante, intelligente, amante dell’estetica e del mondo. Quella risposta finale su Plinio il Giovane, è poi sicuramente sorprendente quanto mai.

Siete curiosi di scorrere questo testo, così poco conosciuto, rispetto all’altro che potete leggere cliccando il link che segue. Quest’ultimo è stato compilato anni dopo il primo questionario, quando Marcel si trovò a partecipare a un nuovo evento sociale. Le domande sono pressoché le stesse; sono invece le risposte ad essere in qualche modo diverse, indicative dei suoi tratti caratteriali a venti anni. Soffermiamoci per ora sulle risposte che dette sette anni prima alla sua amica Antoinette.
Cosa consideri ancora più penoso della miseria?
Essere separato dalla mamma
Dove ti piacerebbe vivere?
Nel paese dell’Ideale, o, piuttosto, del mio ideale
Qual è la tua idea di felicità terrena?
Vivere a contatto con coloro che amo, con le bellezze della natura, con una quantità di libri e musica, e di avere, a breve distanza, un teatro francese
A quali difetti ti senti più indulgente?
Ad una vita privata delle opere di genio
Chi sono i tuoi eroi letterari preferiti?
Quelli di romanticismo e poesia, quelli che sono l’espressione di un ideale piuttosto che un’imitazione del reale
Chi sono i tuoi personaggi preferiti nella storia?
Una miscela di Socrate, Pericle, Maometto, Plinio il Giovane e Augustin Thierry
Chi sono le tue eroine preferite nella vita reale?
Una donna di genio che conduce una vita ordinaria
Chi sono le tue eroine preferite della narrativa?
Quelle che sono più delle donne senza cessare di essere femminili; tutto ciò che è tenero, poetico, puro e in ogni modo bello
Il tuo pittore preferito?
Meissonier
Il tuo musicista preferito?
Mozart
La qualità che più ammiri in un uomo?
Intelligenza, senso morale
La qualità che ammiri di più in una donna?
Gentilezza, naturalezza, intelligenza
La tua virtù preferita?
Tutte virtù che non sono limitate a una setta: le virtù universali
La tua occupazione preferita?
Leggere, sognare e scrivere versi
Chi ti sarebbe piaciuto essere?
Dal momento che la domanda non sorge, preferisco non rispondere. Comunque, mi sarebbe piaciuto molto essere Plinio il Giovane.

LEGGI IL QUESTIONARIO DI PROUST Compilato da lui stesso

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IL QUESTIONARIO DI PROUST è una serie di domande volte a conoscere i gusti e le aspirazioni personali di chi vi risponde. Malgrado la denominazione possa indurre a pensare che sia stato creato da Marcel Proust, il grande scrittore francese si limitò a fornire le proprie risposte. Non si tratta di un test psicologico, poiché non è corredato di interpretazioni di alcun genere; ha il solo scopo di conoscere meglio se stessi e gli altri. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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VALENTIN LOUIS GEORGES EUGÈNE MARCEL PROUST (Parigi, 10 luglio 1871 – Parigi, 18 novembre 1922) è stato uno scrittore, saggista e critico letterario francese, la cui opera più nota è il monumentale romanzo Alla ricerca del tempo perduto (À la recherche du temps perdu) pubblicato in sette volumi tra il 1913 e il 1927. La sua vita si snoda nel periodo compreso tra la repressione della Comune di Parigi e gli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale; la trasformazione della società francese in quel periodo, con la crisi dell’aristocrazia e l’ascesa della borghesia durante la Terza Repubblica francese, trova nell’opera maggiore di Proust un’approfondita rappresentazione del mondo di allora. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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CORRIERE DELLA SERA

Marcel Proust e il questionario ritrovato: «Mi piace amare»

Brexit – Quando Londra sorseggiava tè di Ceylon con zucchero giamaicano

 

Il 23 giugno 2016 nel Regno Unito si è votato per il Referendum sulla permanenza o meno nell’Unione europea. L’esito finale, lo sanno tutti, ha scelto la “Brexit”, parola formata da “Britain“, Gran Bretagna e “Exit“, uscita, La volontà della maggior parte dei cittadini britannici, per la precisione il 52%, è stata favorevole all’uscita della Gran Bretagna dall’UE. L’attuazione pratica di tale volontà non sarà immediata, dal momento che da quel momento si è aperta una serie di negoziati, come previsto dall’articolo 50 del Trattato Ue. Theresa May, Primo ministro del Regno Unito dal 13 luglio 2016, ha provveduto ad un emendamento alla Withdrawal Bill, la legge quadro effettivo divorzio. La Withdrawal Bill è la legge approvata dal Parlamento del Regno Unito che consentirà l’attuazione della Brexit, abrogando automaticamente l’European Communities Act 1972, che ha recepito nel diritto del Regno Unito la ratifica all’adesione del 1 ° gennaio 1973 alle Comunità europee (CE), trasformate in quella che oggi è chiamiamo Unione europea (UE). La legge inglese ha poi fissato la data effettiva dell’uscita per venerdì 29 marzo 2019, alle ore 23,00.

Naturalmente gli eventi sono “in fieri” e presentano non pochi ostacoli. Le aziende che oggi operano nel Regno Unito, dal canto loro, chiedono chiarezza e sollecitano il governo a prendere decisioni sulle modalità di uscita dall’Unione europea. Theresa May andrà a Bruxelles a giugno per un summit che dovrebbe essere decisivo per i negoziati: ma c’è qualche dubbio, giacché il punto di discussione verterà sulle lentezze dei negoziati che presentano le avvisaglie per una possibile rottura. L’atto per il divorzio concordato dovrebbe essere firmato a ottobre; tuttavia i leader UE fanno presente alla Gran Bretagna che, se non verrà raggiunto un accordo di uscita “consensuale”, non si firmerà alcuna transizione. Ciò non consentirà alle imprese di usufruire di un periodo di garanzia nei primi 21 mesi successivi alla scissione. La tensione, dietro i sorrisi di circostanza, è alta. Ecco perché qualsiasi ispirazione di pancia e non di cervello è sempre pericolosa, perché le decisioni politiche si riflettono sul mantenimento dei posti di lavoro, a cominciare da quelli garantiti dagli investitori europei in Gran Bretagna.

Nel XIX secolo, il tè era coltivato in Oriente in piantagioni sostanzialmente industrializzate, gestite e finanziate da società prevalentemente inglesi.

Vale, a questo proposito, ricordare le recenti parole dell’economista inglese Richard Baldwin – PhD al Mit di Boston, ma anche professore alla Graduate School di Ginevra – a proposito dell’imprevista distensione fra America e Cina sul fronte commerciale: «Racconto una mia esperienza. Fra il 1990 e il ’91 ero uno dei consiglieri economici del presidente Bush Senior. Allora il nemico era il Giappone, il japanese bashing, “dagli al giapponese”, conquistava le copertine dei settimanali. Li si accusava di concorrenza sleale, di sovvenzioni inappropriate provenienti non dallo Stato ma dai keiretsu, enormi conglomerati industrial-finanziari ognuno dei quali grosso come uno stato, di furto di proprietà intellettuale. Anche loro avevano le loro colpe, come i cinesi oggi. Ma l’aggressione non risolveva nulla. Solo quando ci si è seduti a discutere in modo sobrio e circostanziato si è sbloccata la situazione e il Giappone è diventato un alleato. Lo stesso si è fatto con il Sud Corea dove i conglomerati si chiamano chaebol, e si deve fare con Pechino: mi piace pensare che sia iniziato un periodo di transizione che potrà durare, mettiamo, cinque anni. Dopodiché, diciamo fra quindici anni, Usa e Cina, saranno solo le più grandi economie mondiali. Il disavanzo commerciale americano si sarà risolto non difendendo le produzioni Usa ma esportando di più». Che questo clima sia ipotizzabile anche per il dopo Brexit? Occorrerebbe una convergenza di idee in un’epoca di globalizzazione, che contestabile o meno, è un dato di fatto. «Sarà la tappa finale – spiega Baldwin – La prima grande globalizzazione risale al 1820 quando la rivoluzione industriale porta al boom dei trasporti merci e per la prima volta a Londra si mangia pane fatto con grano americano sorseggiando tè di Ceylon dolcificato con zucchero giamaicano su una tovaglia di cotone indiano. La seconda ondata di globalizzazione è del 1990 quando la rivoluzione informatica abbatte i costi delle comunicazioni e del trasferimento di idee».

LEGGI LA CRONISTORIA DEI NEGOZIATI SULLA BREXIT DOPO IL REFERENDUM: CONSIGLIO EUROPEO

L’USCITA DEL REGNO UNITO DALL’UNIONE EUROPEA, nota anche come Brexit (sincrasi formata da Britain ed exit), è il processo che porrà fine all’adesione del Regno Unito all’Unione europea, secondo le modalità previste dall’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea, come conseguenza del referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea. L’idea di un’unione dei paesi europei nacque nell’immediato dopoguerra, dalla volontà di uscire dalla violenza del secondo conflitto mondiale, in nome di una stabilità politica ed economica del continente europeo; il primo politico a proporre una confederazione europea fu proprio il britannico Winston Churchill. Tuttavia, i rapporti tra il Regno Unito e l’Europa, fin dall’adesione alla Comunità economica europea (CEE) nel 1973, sono stati sempre caratterizzati da incertezze e ripensamenti. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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WALL STREET ITALIA

Brexit: cos’è e conseguenze

Galileo Galilei – Dopo 360 anni dalla condanna la Chiesa ammette l’errore

 

Galileo di fronte al Sant’Uffizio, dipinto di Joseph-Nicolas Robert-Fleury

 

21 giugno 1633: Galileo Galilei è costretto all’abiura. 31 ottobre 1992: il Vaticano cancella la condanna del grande scienziato. Sono trascorsi 359 anni, 4 mesi e 9 giorni durante i quali Galileo non è stato considerato tra i figli legittimi della Chiesa. La punizione del Tribunale dell’Inquisizione consegue l’avere appoggiato gli studi di Niccolò Copernico, padre della teoria eliocentrica con la quale si dimostra non più valida la teoria geocentrica espressa da Tolomeo e avvalorata dalla Chiesa. Alla presenza dei membri della Pontificia accademia delle scienze, presieduta da papa Giovanni Paolo II, a Galileo è stata oggi restituita tutta la dignità di uomo e di scienziato. Ripercorriamo in breve le date del processo, leggiamo l’atto di abiura, ovvero la rinuncia libera e perpetua, sotto giuramento, ai principi e ai comportamenti, ai quali Galileo aveva in un primo momento aderito.

Le date del processo (1633)
12 aprile: inizia il processo a Galileo Galilei accusato di non avere seguito il “precetto” del cardinale Bellarmino che gli ha intimato di non sostenere o insegnare la teoria copernicana. Tale teoria ritiene, contrariamente alle scritture, che la terra si muove intorno al sole, il quale rimane immobile.
21 aprile: la Congregazione del Santo Uffizio sentenzia che, per quanto è scritto nel suo “Dialogo”, Galileo deve essere condannato dalla Chiesa.
30 aprile: Galileo dichiara di aver riletto il suo libro, ammettendo che si potrebbe avere l’impressione che egli stia avvalorando la teoria copernicana. Per questo chiede scusa.
10 maggio: Galileo spiega che nel “precetto” del cardinale Bellarmino non ha compreso il divieto di insegnare la dottrina copernicana. Per questo chiede scusa ancora una volta.
16 giugno: la Congregazione del Sant’Uffizio decide che Galileo, dopo avere espresso l’abiura de vehementi, sia condannato al carcere giurando di non esporre più verbalmente o per iscritto la teoria sulla mobilità della Terra e sull’immobilità del Sole.
21 giugno: Galileo è interrogato per l’ultima volta. Alle domande del Tribunale inquisitorio, Galileo dichiara di avere messo a confronto le convinzioni antitetiche di Tolomeo e di Copernico. Tuttavia, in seguito alla proibizione del 1616, che esprimeva l’opposizione teologica al sistema Copernicano, ora dava «per verissima e indubitata l’opinione di Tolomeo». Era, infatti, giunto alla convinzione che nessuna delle due dottrine si potesse avvalere di una valida dimostrazione, di conseguenza «per procedere con sicurezza si dovesse ricorrere alla determinazione di più sublimi dottrine».
22 giugno: nella sala del capitolo del convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, Galileo Galilei pronuncia la formula dell’abiura. Il Tribunale – composto dagli inquisitori generali, cardinali Gaspare Borgia, Felice Centini, Guido Bentivoglio, Desiderio Scaglia, Antonio e Francesco Barberini, Laudivio Zacchia, Berlinghiero Gessi, Fabrizio Verospi e Marzio Ginetti – emette la sentenza contro Galileo, «veementemente sospetto d’eresia», condannato al carcere formale e alla recita settimanale dei sette Salmi penitenziali per la durata di tre anni. Pochi mesi dopo la condanna, La pena viene in seguito modificata negli arresti domiciliari presso la villa Il Gioiello ad Arcetri (Firenze), dove Galieo rimane confinato fino alla morte.

Abiura di Galileo Galilei (letta pubblicamente il 22 giugno 1633)
«Io Galileo, fìg.lo del q. Vinc.o Galileo di Fiorenza, dell’età mia d’anni 70, constituto personalmente in giudizio, e inginocchiato avanti di voi Emin.mi e Rev.mi Cardinali, in tutta la Republica Cristiana contro l’eretica pravità generali Inquisitori; avendo davanti gl’occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l’aiuto di Dio crederò per l’avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la S.a Cattolica e Apostolica Chiesa. Ma perché da questo S. Off.o, per aver io, dopo d’essermi stato con precetto dall’istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si muova e che la terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere ne insegnare in qualsivoglia modo, ne in voce ne in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d’essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l’istessa dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato veementemente sospetto d’eresia, cioè d’aver tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo e imobile e che la terra non sia centro e che si muova; Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze V.re e d’ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non fìnta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla S.ta Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più ne asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d’eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò.
Giuro anco e prometto d’adempire e osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S. Off.o imposte; e contravenendo ad alcuna delle dette mie promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da’ sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate.
Così Dio m’aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con le proprie mani.
Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiurazione e recitatala di parola in parola, in Roma, nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633.
Io, Galileo Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria».

 

IL PROCESSO A GALILEO GALILEI, sostenitore della teoria copernicana eliocentrica sul moto dei corpi celesti in opposizione alla teoria geocentrica, sostenuta dalla Chiesa cattolica, iniziò a Roma il 12 aprile 1633 e si concluse il 22 giugno 1633 con la condanna per eresia e con l’abiura forzata delle sue concezioni astronomiche. Nella Chiesa, due erano i maggiori Ordini tutelari della cultura scientifica e teologica: l’Ordine dei gesuiti, che vantava nelle sue fila numerosi matematici e fisici, e quello domenicano, fedele all’insegnamento dottrinario di san Tommaso, e pertanto sospettoso di ogni novità che a quella metafisica potesse in qualunque modo opporsi. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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LA REPUBBLICA

Il Vaticano cancella la condanna di Galileo