Alphonse Mucha – Idealizzò a simbolo erotico l’immagine femminile

di Sergio Bertolami

28 – Il fascino fatale della femme fin-de-siècle

Quando si parla di Art Nouveau, spesso la mente corre alle leggiadre fanciulle ritratte da Alphonse Mucha, ragazze adorabili di delicata sensualità e fantasia, dai capelli boccolosi mossi dal vento, con camicie lunghe e svolazzanti, avviluppate in intrecci floreali. Questo perché Mucha è stato, da sempre, uno dei personaggi simbolo del nuovo stile e del clima parigino fin-de-siècle. Essendo, però, un convinto patriota cecoslovacco, forse si sarebbe risentito di essere considerato un “parigino” e forse anche di essere identificato soltanto per una fase della sua carriera. Capita spesso agli artisti, ecco perché non amano essere catalogati: le correnti per loro natura hanno limiti sempre troppo definiti. Alphonse Mucha, moldavo di nascita (Ivančice 1860), trascorse gli ultimi anni di vita, lavorando a quello che considerava il suo capolavoro d’arte, L’epopea slava (Slovanská epopej), venti enormi dipinti raffiguranti la storia dei popoli cechi e slavi che donò alla città di Praga nel 1928. Eppure, queste opere, sotto il profilo artistico furono criticate e sotto quello politico vennero denunciate dalla stampa, ubriacata dall’ondata crescente del nazismo, come “reazionarie”. Così quando le truppe tedesche occuparono la Cecoslovacchia, nella primavera del 1939, Mucha fu tra i primi ad essere arrestato e interrogato dalla Gestapo. I giorni di prigionia lo fecero ammalare di polmonite e, sebbene fosse stato rilasciato, il 14 luglio 1939 morì. Nei suoi ultimi anni, Mucha s’era infervorato di nazionalismo e aveva ripreso lo stile storicista considerato da molti ormai obsoleto, tanto lontano dall’arte floreale che lo aveva portato al successo.

Jiri Mucha, Alphonse Maria Mucha: His Life and Art, 1966

Suo figlio, il giornalista Jiri Mucha, gli ha dedicato molti articoli, per riportare l’attenzione sulle opere col tempo trascurate, e quando durante gli anni Sessanta del secolo scorso s’è finalmente risvegliato un interesse generale per l’Art Nouveau, in un libro ne ha celebrato la figura artistica a tutto tondo (Alphonse Mucha: his life and art, 1966). Secondo jiri, Mucha «quando ancora gattonava sul pavimento prima che imparasse a camminare, sua madre gli legava una matita al collo con un nastro colorato in modo che potesse disegnare. Ogni volta che perdeva la matita, iniziava a urlare». Chissà mai se questo preludeva davvero al grande artista. Di tali amenità a posteriori se ne leggono tante. Fatto sta che, ormai cresciuto, mentre si guadagnava da vivere come impiegato, continuava ancora a disegnare, da autodidatta. Nel 1877 tentò senza successo di entrare all’Accademia di Belle Arti di Praga. Ripiegò in qualcosa di simile un paio d’anni dopo, rispondendo ad un annuncio della ditta viennese Kautsky-Brioschi-Burghardt, che cercava disegnatori e artigiani per allestire scenografie teatrali. Qualcuno ricorderà la prima attività di Klimt; come lui anche Mucha prese a dipingere seguendo l’arte acclamata di Hans Mackart. Quando nel 1881, il Ringtheater, dove la ditta stava lavorando, fu ridotto in spezzoni ardenti, uccidendo 449 persone, il giovane disegnatore perdette il lavoro.

Paul Gauguin suona l’armonium
nello studio di Alfons Mucha
in rue de la Grande-Chaumière, Parigi, 1895 circa

Non gli rimase che fare l’artista di strada nella piccola città ceca di Mikulov, alloggiando all’Hotel Lion, un alberguccio a buon mercato. Si sosteneva con qualche veduta del paese, qualche ritratto di persone del luogo, in mostra nella vetrina di un negozio. Di quei giorni Alphonse Mucha raccontò, a suo figlio jiri, un aneddoto divertente (per noi): «Ho raffigurato il volto di una bella donna e l’ho portato a Thiery, il negoziante, che lo ha esposto in vetrina. Poi ho cominciato ad aspettare con ansia il denaro. Quando per due e anche tre giorni non ci furono notizie di Thiery, andai a chiederglielo io stesso. Il buonuomo non fu affatto contento di vedermi. La popolazione di Mikulov era indignata e lui aveva dovuto tirare via il dipinto dalla vetrina. La giovane donna che avevo raffigurato era la moglie del medico locale, e Thiery aveva messo un avviso accanto al ritratto scrivendo: «Per cinque fiorini all’Hotel Lion». Lo scandalo fu debitamente spiegato e alla fine l’equivoco funzionò a mio vantaggio. Tutta la città ora sapeva che all’Hotel Lion avrebbe potuto incontrare, non la signora del ritratto, ma un bravo artista. Nel corso del tempo, ho dipinto l’intero quartiere, tutti gli zii e le zie di Mikulov». L’aneddoto gustoso di per sé, è indicativo anche per altri motivi. Il primo fu che schizzi, disegni, dipinti di Mucha, riscossero evidenti consensi da parte della popolazione di Mikulov. Una popolazione non certo raffinata culturalmente, né incline ad accettare proposte pittoriche inconsuete. Mucha si manteneva opportunamente all’interno dei confini prescritti dall’arte accademica. Accadde tutt’altro a Gauguin col quale Mucha per un po’ dividerà lo studio parigino nel 1893, quando gli scatterà una foto spassosa, in cui il pittore senza pantaloni suona l’harmonium. In Bretagna – molti lo ricorderanno – Gauguin dipinse La Belle Angèle (1889), albergatrice a Pont-Aven, una delle donne più belle del paese. Quando alla fine le mostrò il lavoro, la donna esclamò «Che orrore!» e gli disse che poteva benissimo tenerselo. Gauguin, in quell’occasione, aveva deciso di «osare tutto», applicando le soluzioni intraviste sulle stampe giapponesi, Mucha non aveva ancora osato niente. Tant’è che quel suo operare convenzionale e accademico gli valse l’incontro col primo dei suoi mecenati, il conte Khuen Belassi, che lo invitò ad abbellire con affreschi – in verità pannelli decorativi realizzati fuori opera – la sala da pranzo nel nuovo castello di Emmahof vicino a Hrusovany. I dipinti non esistono più, distrutti negli ultimi giorni della Seconda guerra mondiale. Quando gli affreschi di Emmahof, furono terminati, il conte Khuen cedette Mucha a suo fratello, il conte Egon, che viveva nel castello avito di Gandegg in Tirolo. Qui si verificò il primo vero salto di qualità, perché, se è vero che Mucha aveva perso l’occasione di frequentare i corsi all’Accademia di Belle Arti di Praga, ora il conte Egon gli offriva di studiare a Monaco di Baviera. Ritroviamo Monaco nelle biografie di molti artisti: Corinth, Kandinsky, von Jawlensky, Klee, de Chirico. Solo che quando vi giunse, Mucha era troppo in anticipo, per la Secessione di Monaco mancavano sette anni. Con una seconda serie di affreschi a Emmahof, il conte Khuen lo compensò generosamente chiedendogli di scegliere tra Roma o Parigi. Scelse Parigi e fu la sua fortuna. Non tanto perché entrò all’Académie Julian e proseguì all’Académie Colarossi – ambienti dove fece amicizia con molti membri dei Nabis – neppure perché conobbe l’arte giapponese dilagante e neanche perché visse la città fremente in vista della mostra dell’anno 1889, quella che avrebbe celebrato i cento anni dalla Rivoluzione francese e si sarebbe imposta agli occhi del mondo con la sua simbolica torre Eiffel. Fu la sua fortuna perché non tutti i mali vengono per nuocere: alla fine del 1889, improvvisamente e senza preavviso, il conte Khuen interruppe il suo sostegno finanziario e il giovane dovette inventarsi l’arte della sopravvivenza.

Pannelli murali decorativi al castello di Hrušovany Emmahof

Per un grafico, fantasioso come lui, non era poi difficile trovare lavoro in una Parigi con un’attività commerciale stimolata dall’Esposizione Universale. Cominciò a guadagnarsi da vivere modestamente, come illustratore per varie riviste e libri. Fino ad allora Mucha aveva, però, seguito le indicazioni e le richieste dei suoi committenti. All’inizio del 1890 ancora dipingeva quadri come quelli appesi alla Neue Pinakothek di Monaco, al Musée du Luxembourg primo museo di arte contemporanea nella Parigi dell’epoca. Quadri essenzialmente accademici. Delle nuove correnti invece sapeva poco o niente, né più né meno degli altri giovani amici suoi. Il compagno di studi Maurice Denis sintetizzava bene conoscenze ed interessi: «Anche gli studenti più capaci non sapevano quasi nulla dell’impressionismo. Ammiravano Bastien-Lepage, parlavano con rispetto di Puvis de Chavannes, discutevano di Peladan e Wagner, leggevano letteratura decadente, quanto scadente, e si appassionavano al misticismo, alla Cabala e al calendario caldeo». Nelle pagine biografiche, Jiri Mucha aggiunge: «Potevo vedere in mio padre fino a che punto questa miscela di teosofia, occultismo e misticismo affascinasse i suoi seguaci, eppure mio padre non si dichiarò mai un simbolista e probabilmente sarebbe rimasto molto sorpreso da una tale classificazione». Nonostante questa osservazione, nello studio di Mucha si raccolsero molti dei simbolisti di tendenza esoterica e strinse amicizia con Albert de Rochas, famoso specialista di ipnotismo e di parapsicologia. Fatti privati che poco interessarono i suoi lavori. Ora occorreva, soprattutto, che l’arte uscisse dalle sale delle pinacoteche e dei musei, per diffondersi all’esterno, nelle piazze e nelle strade. Sappiamo che a Parigi l’arte nuova aveva svoltato grazie a due importanti promotori come Siegfried Bing col negozio “L’Art Nouveau” e Julius Meier-Graefe con “La Maison Moderne”. Affinché si verificasse, però, una trasformazione compiuta del gusto sociale, occorreva che l’arte nuova fosse percepita ovunque e da chiunque. Al di là delle facili soluzioni, occorrevano strumenti espressivi nuovi. Due furono i mezzi che a Parigi diffusero l’Art Nouveau di luogo in luogo: gli ingressi alla linea metropolitana realizzati da Hector Guimard e i manifesti concepiti da Alphonse Mucha.

Hector Guimard, Castel Béranger, il primo condominio Art Nouveau a Parigi

Lo stile Art Nouveau esplose, infatti, a Parigi col progetto di Guimard (1895-1898) noto come Castel Béranger. Nonostante il nome, era un semplice condominio, che deve avere suscitato fantasie medievali – a cominciare da quelle del progettista, seguace di Eugène Viollet-le-Duc – per la facciata asimmetrica, per il gioco di chiari e scuri volumetrici, di aggetti e rientranze. Un condominio formato da 36 appartamenti, grandi e piccoli. Al sesto piano quattro atelier d’artista, occupati fra gli altri dal pittore Paul Signac e dal designer Tony Selmersheim. Signac descrisse così il Castel Béranger per La Revue blanche del 15 febbraio 1899: «È un edificio residenziale molto moderno, a tre corpi che contengono una quarantina di appartamenti. La sua facciata, invece di essere il solito rettangolo, traforato da aperture simmetriche, è molteplice: i mattoni rossi o smaltati, la pietra bianca, l’arenaria fiammata, la graniglia di marmo, sono disposti sui lati disuguali, sui quali si aggrappano – in varie tonalità di un blu verdastro – il ferro e la ghisa dei balconi, dei bow-window, dei ganci di fissaggio, dei tubi, delle grondaie e delle boiserie, di un identico colore, ma in un tono più chiaro. La porta d’ingresso in rame rosso sfavillante». La scintilla si produsse davvero, se la realizzazione vinse il primo concorso per le facciate più belle della città di Parigi (1898). La conversione di Hector Guimard per l’arte nuova era avvenuta tre anni prima, durante un viaggio a Bruxelles dove aveva incontrato Victor Horta e visitato il cantiere dell’hotel Tassel ancora in costruzione. Il Castel Béranger, pur tributandogli la fama fra una cerchia ristretta e danarosa di estimatori, non avrebbe potuto, comunque, rendere Guimard la figura di spicco che fu per l’Art Nouveau parigina, se non fosse stato per un progetto di più ampio respiro.

Hector Guimard, capolinea della Linea 1 della Metropolitana

L’evento nodale intorno al quale ruotò il suo successo ha come contesto l’Esposizione Universale del 1900. La città di Parigi stava preparando l’evento del secolo, desiderando qualificarsi come una delle più grandi metropoli europee. Il trasporto pubblico era fra le necessità principali della modernità. La linea 1 (Porte de Vincennes – Porte Maillot) venne aperta il 19 luglio 1900, dopo venti mesi di lavoro, ma servivano anche i chioschi e gli accessi al métro. La Compagnie du Métropolitain, anziché scegliere fra i deludenti elaborati del concorso che aveva indetto, a sorpresa affidò l’incarico direttamente a Guimard, che non era neppure fra i partecipanti alla gara. Fu questo progetto a decretare la celebrità dell’architetto, non soltanto fra una committenza elitaria, ma anche tra le fasce minute dei lavoratori che per necessità si spostavano giornalmente utilizzando i mezzi pubblici: molti prestavano servizio saltuario a domicilio negli uffici e nelle abitazioni, altri godevano di stipendio come funzionari e impiegati, altri ancora come artigiani, commercianti e fornitori svolgevano attività in negozi e grandi magazzini, gli operai raggiungevano le fabbriche da un capo all’altro di Parigi. Si comprenderà bene tutto ciò, rammentando semplicemente che nella capitale francese lo stile Guimard divenne subito sinonimo di Art Nouveau.

Alphonse Mucha, manifesto per Gismonda
di Victorien Sardou con Sarah Bernhardt
al Théâtre de la Renaissance di Parigi

Alphonse Mucha divenne celebre anche lui, dalla sera alla mattina, come Guimard. A testimoniarlo è il numero speciale (tiré a part) della rivista d’arte e letteratura La Plume, che usciva il primo e il 15 di ogni mese. Ospitava scritti di Verlaine, Moréas, Laforgue, Bloy , Mallarmé. Utilizzava disegni e illustrazioni di artisti come Grasset, Toulouse-Lautrec, Denis, Gauguin, Pissarro, Signac, Seurat, Redon. Alla fine dell’anno 1897 pubblicò una monografia consacré ad Alphonse Mucha e alla sua opera, con 127 illustrazioni da lui stesso realizzate. Il numero aprì così: «Tre anni fa brillava sui muri della capitale un manifesto che annunciava: Gismonda, Sarah Bernhardt, al Theatre de la Renaissance. Viva emozione nel mondo degli artisti e in quello dei collezionisti: un nuovo talento si annunciava all’orizzonte; tra non molto le trombe della fama avrebbero segnalato la sua apparizione nel ristretto campo della gloria. Immediatamente si formarono due correnti: l’una che sosteneva l’autore di Gismonda, l’altra che difendeva strenuamente le glorie consacrate e denigrava ferocemente il talento del nuovo venuto, il quale si teneva in disparte, circondato da bizzarre leggende». Una di queste leggende bizzarre narrava dell’osannata diva che durante un tour in Ungheria s’imbatteva con lo squattrinato disegnatore nei panni di un violinista zigano. La realtà è meno romanzata, ma a volte altrettanto intrigante. A metà degli anni Novanta, Sarah Bernhardt era all’apice di una gloriosa carriera di attrice. I suoi ammiratori erano convinti che la sua “strana bellezza onirica” fosse impossibile da raffigurare. L’aveva fotografata Nadar, ritratta su tela Jules Bastien-Lepage o Antonio de la Gandara. Niente era, però, soddisfacente. Lei avrebbe voluto apparire in un dipinto del preraffaellita inglese Edward Burne-Jones, ma rimase solo un desiderio. L’unico che riuscì nell’intento fu Mucha. Il manifesto, che la mostrava nel costume di Gismonda, lo teneva appeso al muro del suo camerino: «Sarah era in piedi di fronte ad esso, incapace di distogliere lo sguardo. Quando mi ha visto, è venuta e mi ha abbracciato. Insomma, nessuna vergogna, ma successo, grande successo».

Sarah Bernhardt in copertina su di un numero della Revue illustrée
Alphonse Mucha in copertina su di un numero della Revue illustrée

Come avvenne la svolta di una vita, lo raccontò lui stesso. La mattina del giorno di Natale del 1894, Mucha si presentò alla tipografia dell’editore Lemercier in Rue de Seine, per una commissione. Sarah Bernhardt telefonò chiedendo notizie del manifesto per la nuova commedia Gismonda, scritta per lei dal celebre drammaturgo Victorien Sardou – la sua Tosca fu musicata da Puccini –. Lemercier aveva commissionato a vari pittori lavori che l’attrice aveva scartato. Con così scarso preavviso, poche erano le speranze di trovare un altro artista per Capodanno. Mucha accettò di assistere ad uno spettacolo della Bernhardt, per tentare di ritrarla. Noleggiò un frac, si fece prestare un cilindro (più largo della sua testa) e si presentò dietro le quinte del Theatre de la Renaissance, con un album da disegno e tutte le matite di cui aveva bisogno. «Ho abbozzato il suo vestito, i fiori dorati tra i capelli, le maniche larghe e una foglia di palma in mano». Dopo il teatro, sul tavolo di marmo di un bar schizzò la sua proposta al direttore dello spettacolo, un certo M. de Brunhoff. Il formato allungato del manifesto – che ricordava un tipo di stampa giapponese, che a sua volta si rifaceva alle pitture su rotoli cinesi – richiese di utilizzare due pietre litografiche in contemporanea. Ne scaturì un lavoro così bizzarro per quel suo formato insolito, una composizione ieratica, dettagli stilizzati, colori delicati e tenui, tanto che sia Lemercier che de Brunhoff, sconcertati, si aspettavano un disastro. La grande Sarah – ricordava Mucha – ne rimase incantata. Quando il manifesto apparve sui muri di Parigi, a gennaio del 1895, fece scalpore: l’immagine era riprodotta quasi a grandezza naturale, con posa solenne e sacrale. Come scrisse Jerome Doucet sulla Revue illustrée, «Questo manifesto ha reso familiare a tutta Parigi il nome di Mucha da un giorno all’altro […] Questo manifesto, questa finestra bianca, questo mosaico sulla parete, è una creazione di prim’ordine, che ha meritato il suo trionfo».

Alphonse Mucha, Manifesto Salon des Cents 1901, Museo delle Arti Decorative, Parigi
Alphonse Mucha, Moët & Chandon White Star, 1899
Alphonse Mucha – Job Cigarettes

Mucha firmò un contratto in esclusiva per Sarah Bernhardt, che accettò di pagare un acconto mensile di 3000 franchi, più 1500 franchi per ognuno dei sei manifesti che l’artista disegnò per lei: La Dame aux Camèlias (1896), Lorenzaccio (1896), La Samaritaine (1897), Médée (1898), Hamlet (1899) e Tosca (1899). Bernhardt portò numerose altre commissioni. Sulla traccia ispiratrice di quel suo successo, Mucha creò un tipo femminile ideale, riconoscibile a prima vista, che usò per pubblicizzare di tutto. Manifestazioni e prodotti commerciali: dalle diverse edizioni del Salon des Cent alle Cigarette Job, dallo Champagne Moët & Chandon alla rivista satirica Cocorico, ai manifesti per Biscuits Lefèvre-Utile, per Chocolat Idéal, per la bicicletta Perfecta. Progettò mobili e posate, scatole di biscotti e modelli per spille e ciondoli. Nel 1900 realizzò una esposizione per il gioielliere Georges Fouquet, che in Rue Royale si trovava di fronte a Maxim’s, il tempio del palato tra i piaceri della Belle Époque. Tutti lavori che gli assicurarono l’affermazione internazionale e gli consentirono l’ingresso nei salotti dell’aristocrazia dell’epoca. Fu presente anche alla grande Esposizione Universale di Parigi del 1900, dove ricevette una medaglia d’argento. Di quei giorni animati ricorderà anzitutto «l’esaurimento, la stanchezza assoluta…». Questo perché la fama comportò presto di doversi tutelare dalle imitazioni, diffuse ovunque nei padiglioni espositivi: «La mia arte era in voga, penetrava nelle fabbriche e nelle officine come “le style Mucha” e vari oggetti della Mostra venivano continuamente sequestrati per proteggere i disegni originali dalla contraffazione».

Boutique della gioielleria Georges Fouquet al 6 rue Royale di Parigi, disegnata nel 1901 da Mucha e smantellata nel 1923, Museo Carnavalet (Parigi)

Negli anni del primo Novecento le sue figure femminili comparvero sui muri delle città e sulle pagine delle riviste. La sua tecnica preferita era la litografia, ma si rivolse anche alla pittura, adottò la fotografia per studiare le pose delle sue modelle, che rappresentò anche in scultura. Quando, però, l’euforia per l’Art Nouveau sfiorì, Mucha dovette trovarsi pronto a lasciare Parigi per l’America, alla ricerca di commissioni più redditizie. Compì numerosi viaggi negli Stati Uniti, di solito rimanendo per cinque o sei mesi. Sentiva di poter fare qualcosa di più che non assecondare esclusivamente le richieste commerciali. Accolse soltanto una proposta, nel 1906, per progettare le scatole e un display per un Savon Mucha. Realizzò un manifesto per l’attrice americana Mrs. Leslie Carter, acclamata come The American Sarah Bernhardt. Preferì dedicarsi all’insegnamento dell’illustrazione e del design alla New York School of Applied Design for Women e alla Philadelphia School of Art. Rientrato in patria nel 1911, dal momento che era nato come pittore di storia, tornò infine al vecchio amore e si applicò a una serie di dipinti dedicati all’epopea slava. Amava rappresentare lo spirito del suo popolo, la «luce che risplende nelle anime di tutte le persone con i suoi chiari ideali e gli avvertimenti ardenti».

Alphonse Mucha al lavoro per la serie L’epopea slava

Con questo articolo si conclude la prima stagione sull’Arte del Novecento, dedicata ai Precursori.
Ringraziamo per l’interesse mostrato.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Antoni Gaudí – “La retta è la linea degli uomini e la curva è la linea di Dio”

di Sergio Bertolami

27 – Gaudí espressione massima del modernismo catalano

Corsi e ricorsi caratterizzano la Storia. Per cui anche Antoni Gaudí i Cornet, dal secondo dopoguerra, è stato progressivamente “riscoperto”, così com’è accaduto per l’Art Nouveau che in Spagna ritroviamo sotto il nome di Modernismo. Molteplici le ragioni. La prima, in modo assoluto, è dovuta all’imporsi del razionalismo sulle numerose correnti del primo Novecento. Poi, sotto il profilo politico, occorrerebbe considerare le ripercussioni della guerra civile spagnola e i lunghi anni di autarchia e di governo franchista. Nel caso specifico di Gaudí, uomo dal carattere riservato, una più ampia conoscenza fu ostacolata dalla sua stessa resistenza ad intervenire agli eventi espositivi e culturali acclamati in Europa. Quando nel 1910 il suo maggiore mecenate, il conte Güell, spendendo una cifra folle per l’occasione, organizzò una sua mostra di fotografie e di progetti all’interno del Salon parigino, Gaudí escluse del tutto l’idea di parteciparvi. Oggi Gaudí – considerato uno dei più grandi architetti del Novecento, precursore di altri grandi artisti catalani come Picasso, Dalì e Buñuel – è diventato un’icona d’integrità artistica e genialità, di pietà religiosa e di amore incondizionato per la sua terra natale, la Catalogna. È assurto a larga fama più per le sue eccentricità piuttosto che per l’effettivo intendimento della sua architettura. «Era un ecologista: riciclava piastrelle rotte, stoviglie, giocattoli per bambini, vecchi aghi di fabbriche tessili, nastri metallici per imballare stoffe di cotone, reti da letto e le sagome dei forni industriali per creare i suoi edifici». Lo racconta Gijs van Hensbergen nella sua biografia critica (Antoni Gaudí, a biography, 2001).

Ritratto fotografico di Antoni Gaudí nel 1878 anno del diploma
alla scuola di Architettura di Barcellona

Eppure, il 7 giugno del 1926, riverso in strada sui binari di un tram nessuno lo riconobbe: «Sembrava un senzatetto ubriaco», dichiarò alle autorità il conducente che lo aveva appena travolto. C’era da credergli: al tempo, gli architetti di Barcellona dovevano essere ben vestiti, la piega del pantalone impeccabile, anche tra la polvere del cantiere. Ma nella vita come nella morte, Antoni Gaudí visse sempre di gesti stravaganti e di una creatività che forse rasentava la follia, di certo era espressione del suo grande misticismo. Tutti lo conoscono per la Sagrada Família, l’edificio al quale dedicò quaranta anni di vita. Dei 18 campanili progettati vide solo quello di san Bernabè. Nondimeno, il plauso non sempre è stato unanime. George Orwell, nel 1938, in Omaggio alla Catalogna, parlando proprio della Sagrada Família, la stroncava così: «Sono andato a vedere la cattedrale, una cattedrale moderna, e uno degli edifici più orribili al mondo. Ha quattro guglie merlate esattamente a forma di una bottiglia di vino del Reno. A differenza della maggior parte delle chiese di Barcellona non è stata danneggiata durante la Rivoluzione: è stata risparmiata a causa del suo “valore artistico”, si diceva. Penso che gli anarchici abbiano mostrato cattivo gusto nel non farla esplodere quando ne hanno avuto la possibilità». Per un attimo, immaginate cosa avrebbe risposto Gaudí ad Orwell. A un giovanotto che criticava la sua opera – sì molto bella e pienamente artistica, ma che a lui comunque non piaceva – Gaudí, ribatté bruscamente: «Non lavoriamo per far piacere a voi». Una delle caratteristiche più conosciute di Gaudí era proprio il carattere impulsivo e scontroso e per questo si giustificava: «Ho dominato tutti i miei vizi, meno il cattivo temperamento». La sua effettiva personalità, la sua figura solitaria, ​​è stata sempre poco accessibile. Rimane ancora un enigma. La sua architettura, viceversa, è un libro aperto. «Il grande libro, sempre aperto e che bisogna sforzarsi di leggere – ripeteva – è quello della natura; gli altri libri derivano da questo e contengono, inoltre, interpretazioni ed equivoci degli uomini. Ci sono due rivelazioni: una, quella dei principi della morale e della religione; l’altra, che guida mediante i fatti, è quella del grande libro della natura […] L’imitazione della natura arriva fino alle membrature architettoniche, dal momento che gli alberi furono le colonne; solo in un secondo momento vediamo i capitelli ornarsi di foglie. Questa è un’ulteriore motivazione della struttura della Sagrada Família».

Gaudì, volta della navata longitudinale della basilica

L’immagine più diffusa della basilica è quella esterna, ma ad entrarci, a guardare le colonne arboriformi che sorreggono la copertura, chiunque comprende che quel bosco di fusti e di rami unisce davvero “la terra al cielo”: «Le colonne della Sagrada Família seguono una linea di forza che costituisce la traiettoria della loro stabilità, ossia il loro equilibrio. Sono generate da una sezione a stella che ruota salendo; il suo movimento è, dunque, anche elicoidale (proprio come nei tronchi degli alberi). Le stelle vanno e vengono, dato che le orbite sono linee chiuse; la colonna va e viene perché ha un doppio movimento elicoidale; essa, infatti, ruota in entrambi i sensi». Ascoltare la voce dell’artista fa tutt’altro effetto. Le sue Idee per l’architettura. Scritti e pensieri raccolti dagli allievi (a cura di Maria Antonietta Crippa e Isidre Puig Boada, 2011) restituiscono il vero senso dell’architettura di Gaudí. Qualcuno, per assurdo, mette in dubbio persino la profonda fede cristiana, confondendo le sue simbologie con quelle della massoneria. Il compasso e la squadra che comparivano sulle sue fatture. La stella a cinque punte del Parco Güell. Nella Sagrada Família, il pellicano che si squarcia il petto sulla porta della Nascita – simbolo dell’eucarestia, ma anche 18° grado della scala gerarchica massonica – oppure il quadrato magico sulla facciata della Passione, dove righe o colonne sommano sempre 33 – gli anni di Cristo, ma anche il massimo grado del rito scozzese –. Per non parlare del fatto che Eusebi Güell era un riconosciuto massone e che, secondo Apeles Mestres, scrittore suo contemporaneo, Gaudí cominciò ad accettare solo progettazioni dal carattere religioso, riservandosi di assumere altri incarichi se non dopo essersi raccolto in preghiera di fronte alla Moreneta, la Vergine Nera di Montserrat.

Criptograma posto sulla facciata della Passione

La questione, in verità, era strettamente legata alla vita personale dell’artista, che nel corso degli anni maturò una spiritualità sempre più profonda, fino ad abbracciare integralmente la fede cattolica in età matura. Quello che lo cambiò intimamente fu il rapporto di amicizia con l’eccentrico Josep María Bocabella y Verdaguer, proprietario di una libreria/tipografia religiosa a Barcellona. Questo per due motivi – uno viscerale, l’altro razionale – che possono spiegare molte più cose di quanto non appaia. Facciamo un passo indietro. Uno dei primi incarichi di Gaudí, a testimonianza del suo approccio al socialismo utopico in quel periodo, fu il progetto di una fabbrica in un quartiere operaio di Matarò, la Società Cooperativa La Obrera Mataronense (1878-1882). Come spesso accade, il progetto non venne completato e solo la fabbrica, l’edificio di servizio e un magazzino furono costruiti. Il fatto viscerale fu che, a Matarò, Gaudí visse l’unica storia sentimentale della propria vita, che gli procurò una immensa delusione: l’innamorata scelse un altro pretendente e Gaudí si votò al celibato. Per questa ragione entrò, più tardi, nell’associazione religiosa del libraio Bocabella, il quale, reduce da un pellegrinaggio a Roma nel 1861, cinque anni più tardi fondò l’Associació Espiritual de Devots de Sant Josep. Anche Gaudì aderì all’associazione, celebrando la famiglia, in comunione con gli altri membri, nel nome di Maria «unita a Giuseppe, uomo giusto, da un vincolo di amore sponsale e verginale» (Collectio Missarum de Beata Maria Virgine). Lo scopo comune era di promuovere la costruzione di un tempio dedicato alla Sacra Famiglia.

Progetto del 1877 di Francisco de Paula del Villar y Lozano per la Sagrada Familia

Nel 1881 l’associazione acquistò il terreno e diede avvio alla costruzione del primo nucleo della chiesa, laddove ora si trova la cripta (e la tomba dello stesso Gaudí). Il 19 marzo 1882, giorno di San Giuseppe, il vescovo Urquinaona posò la prima pietra del tempio espiatorio neogotico progettato dal diocesano Francisco de Paula del Villar y Lozano. A luglio i primi problemi portarono alle dimissioni del progettista. Bocabella sognò che un architetto dagli occhi azzurri avrebbe assunto i lavori. Nell’autunno del 1883, Bocabella entrò nello studio di Joan Martorell i Montells – designato a sostituire Villar – e si trovò faccia a faccia con Gaudí, suo collaboratore. Era il “prescelto” del Signore. Naturalmente, accettando l’incarico, chiese di apportare modifiche al progetto iniziale. A conti fatti avrebbe dovuto edificare la chiesa in pochi mesi. Sappiamo bene che è ancora in costruzione. Prima del Covid, si programmava il termine dei lavori intorno al 2030, confidando sul mantenimento di un flusso costante di donazioni ed entrate. In verità, i lavori procedono lentamente, a causa delle difficoltà di un progetto i cui disegni e modelli sono stati distrutti nel corso della guerra civile (1936-1939). A tutt’oggi, però, non si è ancora affrontato il vero problema, dal momento che la pianta basilicale a croce latina dovrà essere completata per realizzare l’ingresso con la scalinata. Oggi si usufruisce delle altre due entrate monumentali poste sulle testate del transetto. Vari edifici circostanti, dunque, dovranno essere abbattuti. Espropri multimilionari, nuovo assetto urbano, ricostruzioni. Nessun problema, lo stesso architetto amava dire: «I lavori della Sagrada Família procedono lentamente, perché il suo Padrone non ha fretta».

Progetto piazza stellata per la Sagrada Familia (1916)

È facile comprendere perciò che per Gaudì la forma architettonica non era sicuramente la priorità, essendo completamente subordinata al suo significato religioso. A suo modo anticipava quello che per i razionalisti sarebbe diventato un assioma: la forma segue la funzione; ma per Gaudí la funzione dell’uomo è realizzare «un’opera posta nelle mani di Dio e affidata alla volontà del popolo». Attraverso il suo percorso di vita, col tempo, era andato trasformandosi in un oblato, dedito ad opere grandiose che scaturivano dalla sua estasi mistica. Ecco perché oggigiorno il Vaticano, due mesi e mezzo dopo la richiesta del cardinale di Barcellona Ricard Maria Carles, ha dato via libera alla beatificazione dell’architetto catalano. Il processo religioso è in corso. Non esiste, però, solo il Tempio di Dio, ma ci sono anche le opere per gli umani, giacché Gaudí ha arricchito la sua città pure di una decina di palazzi e varie opere di urbanistica. Ad esempio, le opere realizzate per l’industriale Eusebi Güell i Bacigalupi, di madre genovese, suo grande amico e munifico mecenate. Uomo di una ricchezza assoluta, aveva accumulato fortune smisurate aprendo nuove aziende nei settori più promettenti del momento: una fabbrica di tessuti che diverrà la futura Colonia Güell, una fabbrica per asfalti e cementi Portland, una Compagnia per trasporti marittimi e una Compagnia mineraria in Nord Africa, presidente di una banca.

Gaudì, vetrina per esporre la produzione della Guanteria di Esteve Comella (1878)

Güell conobbe il neolaureato Gaudí nel 1878, colpito dalla Vetrina per la Guanteria Comella, che quell’anno vinse una medaglia d’argento all’Esposizione Universale di Parigi. La prima commessa fu un padiglione di caccia vicino a Sitges, ma rimase solo sulla carta. Lo compensò allora facendogli realizzare il nuovo muro di proprietà, avendo allargato il giardino della propria casa estiva. Per la Finca Güell, Gaudí concepì la famosa Porta del Drago, sulla sinistra la portineria e sulla destra le scuderie e il maneggio. Per realizzare la Porta lavorò personalmente a Reus con suo zio. Il tema del dragone era ossessivo per il giovane architetto. Sin dai primi lavori – anche da collaboratore di Josep Fontseré i Mestres, nel progetto della cascata del Parco della Cittadella (1875-1881) – continuerà ad inserirlo ovunque, quale elemento decorativo. Si richiamava alla venerazione per il santo patrono della sua terra, san Giorgio, che secondo la leggenda avrebbe ucciso il mostro, tanto da comparire per devozione nelle armi nobiliari di Catalogna e d’Aragona (dragón = de Aragón). La lotta di san Giorgio contro il drago, dal medioevo, era sempre stato il simbolo della lotta del bene contro il male. Ancora simboli, in ogni opera.

Gaudì, cancello d’ingresso ai Padiglioni
Gaudì, corte interna di Palau Güell

D’altra parte, Gaudì si muoveva sotto la spinta della Renaixença, il movimento letterario le cui tematiche ricorrenti (tra idealismo, simbolismo, tradizione ed esaltazione patriottica), peroravano la rinascita catalana. Agì da sprone all’inasprirsi del sentimento di rivalsa al centralismo castigliano, favorendo il ripristino dell’uso corrente della lingua catalana, l’approfondimento della storia locale e il rifiorire di forme artigianali. Lo stesso Don Eusebi Güell, persona tanto colta quanto nazionalista, sognava la sua Barcellona come una nuova Delfi. Al centro del mondo lo pone l’architetto, disegnando la sua casa. A Palau Güell (1885-1889) l’interno si declina attorno alla grande sala del primo piano, il classico piano nobile, ma qui organizzato come un iwan, tipico ambiente islamico, una corte chiusa e coperta. Questo spazio a tutta altezza, su cui si affacciano le stanze, è il luogo di rappresentanza sociale della famiglia Güell e culmina con una cupola traforata che fa immaginare un cielo stellato di notte e filtrare i raggi solari di giorno. «Il sole è il grande pittore delle terre mediterranee!». In queste opere paradigmatiche Gaudì consolidava il proprio linguaggio, ponendo sempre in primo piano il riferimento alle forme dettate dalla natura. «Quest’albero vicino al mio studio: questo è mio maestro», così commentava agli amici. Attraverso tali stimoli, sollecitava la sua creatività e innovava forme plastiche e spazialità.

Gaudì, Park Güell

L’opera più legata al paesaggio, è Park Güell (1900-1914), nata come un progetto di urbanizzazione privata richiesto dal suo mecenate, nello stile delle città giardino che stavano sorgendo in Inghilterra, ispirate alle idee di Ebenezer Howard, il quale già dal 1898 aveva illustrato le proprie teorie riformatrici (Garden cities of tomorrow, 1902). Il complesso, suddiviso in 62 lotti edificabili, con vista panoramica sulla città, si sviluppava per 15 ettari nella parte alta del paesino di Gracia, sobborgo di Barcellona, nota come Montaña Pelada perché liscia e brulla. Gaudì progettò l’impianto generale, studiando percorsi che assecondavano l’orografia del sito e attuavano il suo principio di natura “architetturata”. Realizzò una abitazione monofamiliare campione e l’intera rete delle infrastrutture viarie completamente immersa nella vegetazione: passaggi pedonali, sovrappassi, portici e gallerie, le cui colonne in pietra s’inclinano seguendo le forze di carico della collina. «Mi domandarono perché facessi delle colonne inclinate. Risposi loro: “Per la stessa ragione per cui il viandante stanco, quando si ferma, si appoggia sul bastone inclinato, dato che se lo mettesse in senso verticale non riposerebbe”».

Vista aerea della piazza centrale del Park Güell

I due padiglioni d’accesso al Parco, uno destinato alla portineria del complesso, si aprono su di un’ampia scalinata completata da fontane sulle quali spicca un coloratissimo drago, ormai addomesticato. Si può così accedere al mercato coperto pensato come una Sala Ipostila, ritmata da possenti colonne doriche. A copertura della sala è la celebre piazza, che compare su libri e riviste quando si descrive Park Güell, destinata al tempo libero e ai giochi dei bambini, alle giostre, aperta sulla vista di Barcellona, delimitata da una sinuosa balaustra-sedile. Per realizzarla Gaudì si avvalse dell’architetto Josep Maria Jujol, uno dei suoi collaboratori più promettenti, che rivestì la seduta con un trencadís di piastrelle e ceramiche. Si racconta che Gaudí, vedendo nel laboratorio di Lluís Brú, come si provava ad accostare piastrelle di varia provenienza, ne spezzò alcune prorompendo: «Bisogna metterle a manciate, altrimenti non finiremo mai». D’altra parte, Gaudì era stato il primo a utilizzare questo metodo per rivestire superfici curve e irregolari, come i padiglioni della Finca Güell, dal momento che le forme sinuose rendevano necessario rompere le piastrelle di ceramica, riducendole a delle tessere musive e attualizzando la tecnica dell’opus tessellatum romano.  

Gaudì, balaustra-sedile a mosaico, realizzato con un “tritato” (trencadís) di bicotture e porcellane cementate

L’ambizioso progetto non riscosse il favore degli acquirenti, poiché l’urbanizzazione agli inizi del secolo fu considerata distante dalla città e decentrata in un’area troppo isolata. Cosicché la cittadella residenziale non fu mai realizzata per intero. Solo due furono le costruzioni vendute, una all’avvocato Martì Trias i Doménech (i cui eredi sono ancora i proprietari), l’altra allo stesso Gaudì, che vi trasferì il vecchio padre e la giovane nipote, che a breve scomparvero. Rimase a viverci da solo per tredici anni, prima di ritirarsi definitivamente nel tempio della Sagrada Família e continuare a fantasticare e sperimentare come sempre aveva fatto nel corso della vita e delle opere: «La scienza – diceva – è una cesta che diventa sempre più colma di oggetti e che nessuno può maneggiare se non interviene l’arte, la quale fissa dei manici alla cesta e ne estrae il necessario per le sue realizzazioni».

Gaudì, drago con trencadís sulla fontana all’ingresso del Park Güell

LEGGI ANCHE: Antoni Gaudí – Il giorno che finì sotto un tram e nessuno lo riconobbe

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Charles Rennie Mackintosh – Ha combinato una varietà di fonti in uno stile del tutto originale

di Sergio Bertolami

26 – Mackintosh e il Movimento di Glasgow

Charles Rennie Mackintosh è stato a lungo considerato, a torto, un decoratore, un arredatore, un disegnatore di mobili in stile Art Nouveau. Guadagnò popolarità solo nei decenni successivi alla scomparsa. È sufficiente pensare che, fatto l’inventario dei lavori lasciati, volendo porre all’asta i suoi numerosi schizzi, i disegni di architettura e di arredamento, 26 acquerelli e 5 dipinti di fiori, il lotto fu considerato così poco interessante che il banditore stimò il tutto soltanto 88 sterline, 16 scellini e 2 pence. La stessa celebrazione di Mackintosh, come designer e architetto di primo piano, avvenne quando Glasgow, città natale, fu nominata Capitale europea della cultura per l’anno 1990. In virtù di ciò, la costruzione della sua House for an Art Lover nel Bellahouston Park iniziò soltanto nel 1996. Altri lavori da lui progettati non sono mai stati realizzati, per il semplice fatto che non avevano incontrato il gusto della committenza. Una committenza arcigna e tradizionalista. Ma forse la vera ragione è che Mackintosh ha sempre svolto la sua attività senza identificarsi completamente in nessun movimento, e le persone (non solo i critici d’arte) hanno sempre bisogno di collocarti nella “scatola” giusta. Lui, invece, contava che la sola ispirazione personale potesse portarlo alla bellezza. Pertanto, anche a volerlo annoverare fra gli artisti Art Nouveau notiamo immediatamente il suo tratto del tutto originale. La riprova maggiore, a ben pensare, è che questa sua originalità estetica non ha mai lasciato eredi. Neppure fra studenti e professori della sua Glasgow School of Art. Eppure, basta citare il nome di Charles Rennie Mackintosh per pensare proprio a Glasgow, dove in gran parte si trovano le sue architetture.

Charles Rennie Mackintosh nel 1893, in una foto colorata di James Craig Annan

Glasgow, con la Rivoluzione industriale, da piccolo insediamento rurale sulle rive del fiume Clyde, aveva raggiunto l’apice della sua potenza industriale e commerciale, grazie allo sfruttamento delle vicine miniere di carbone e ferro, e allo sviluppo dei prodotti chimici e tessili. Soprattutto grazie al boom della cantieristica impiantata sulle rive del Clyde, sostenuta dall’ingegneria navale che realizzava navi spettacolari. Con questo, nel corso dell’età vittoriana e del periodo edoardiano, Glasgow divenne la sesta metropoli più grande d’Europa e la seconda città dell’Impero britannico. La scuola d’Arte incrementò, perciò, i corsi e gli studenti che istruì trovarono sempre più lavoro nei cantieri navali. Per questo motivo, anche il giovane McIntosh – così si chiamava prima di cambiare cognome in Mackintosh, intorno al 1893 – adottò un piano di studi che preparava più per i mestieri navali e ingegneristici che per i mestieri artistici, anche perché avrebbe voluto fare architettura e la sezione specifica fu istituita dalla scuola solamente a partire dal 1887. All’epoca, da tre anni, Mackintosh aveva già iniziato a prendere lezioni serali, investendo tempo e cure in disegno e pittura. Le prospettive d’impegno nell’arte erano elevate in una città in cui l’esigua aliquota dell’imposta sul reddito e la non tassazione dei profitti industriali incoraggiavano gli investimenti. Lo studente Mackintosh si distinse sin dall’inizio in varie occasioni fino a conseguire il secondo premio della prestigiosissima borsa di studio “Alexander Thompson” del 1890, per un progetto di “Edificio pubblico originale che può ospitare 1000 persone”. Il premio gli permise, l’anno successivo, un lungo viaggio in Italia, transitando per Parigi, Bruxelles, Anversa e Londra. Un viaggio di studio, perché agli scritti teorici degli architetti del suo tempo potesse aggiungere la conoscenza diretta dell’architettura classica, che lui indirizzò alle memorie bizantine, romaniche e gotiche, piuttosto che al Rinascimento italiano. E non poteva essere altrimenti, essendo attratto dalla lezione di Augusto W.N. Pugin e di John Ruskin. Quando a febbraio del 1891, la Glasgow Architectural Association lo invitò a parlare, già dal titolo della sua relazione – Lo stile feudale scozzese in architettura (The Scottish Feudal Style in Architecture) – si poteva capire quali sarebbero stati i presupposti del suo lavoro futuro. Avrebbe voluto recuperare le virtù della tradizione feudale scozzese, purgandole da contaminazioni neoclassiche, per coniugarle con gli insegnamenti del movimento Arts & Crafts. La stessa rosa stilizzata che sempre riproporrà nel corso della sua opera è un simbolo tipicamente medievale, a simboleggiare l’amore come fonte della vita. Un gusto condiviso e dichiarato da molti degli architetti e decoratori “più avanzati” del tempo: «Nel profondo dell’architettura antica – scriveva William Lethaby – troviamo meraviglia, magia e simbolismo; la nostra motivazione moderna è servire l’uomo, creare nuove strutture e sviluppare la scienza concreta».

Non era soltanto il mondo naturale locale ad ispirare Mackintosh, quello che affondava le radici nel panteismo celtico scoperto a scorrere le letture della tradizione, con narrazioni ambientate in foreste di querce per impersonare uomini temprati dalla vita. Era cresciuto avvertendo pure le spinte particolari che giungevano dal lontano Oriente. Ricordava quando la Glasgow Corporation (la municipalità cittadina) aveva organizzato una mostra di arte decorativa giapponese nel 1882, per evidenziare i rapporti economici privilegiati che la città aveva con il Paese del Sol Levante. Non era che un quattordicenne, allora. Sono questi gli anni fecondi della formazione, compiuti, vincendo le resistenze del padre, prima come tirocinante nello studio di John Hutchison, poi come disegnatore nello studio di John Honeyman e John Keppie, appena aperto, di cui diverrà a fatica partner quando la sua fama sarà riconosciuta più fuori che nella sua stessa città. Gli eventi biografici sono sempre il tessuto connettivo di quelli artistici, perché, nello studio Honeyman & Keppie, Mackintosh fece amicizia con James Herbert MacNair e per suo tramite conobbe anche le sorelle Margaret e Frances MacDonald.

Margaret MacDonald, signora Mackintosh

I quattro, meglio conosciuti col termine inglese The Four, tutti studenti d’arte, andarono a costituire una “sezione mista”, per così dire, dei Glasgow Boys e delle Glasgow Girls, gli studenti d’arte i cui lavori migliori distinguevano la scuola nelle gare internazionali. Ecco, dunque, che i nostri Glasgow Four – sembra il nome di un gruppo beatnik anni Sessanta (del ‘900) – balzarono all’attenzione già dalla prima rassegna collettiva a Liegi nel 1895. Il gruppo realizzò diverse mostre a Glasgow e a Londra, ma esporrà via via anche nel continente: manifesti, grafiche, stampe, mobili e oggetti decorativi. Nel giro di qualche anno le creazioni permisero loro di acquisire una reputazione internazionale, con un impatto sorprendente nella definizione dell’Art Nouveau. Il 14 giugno 1899 MacNair sposò Frances Macdonald e il successivo 22 agosto del 1900, Mackintosh si unì in matrimonio con Margaret Macdonald. Eventi che tutti i libri riportano, ma raramente menzionano che Margaret è da considerarsi parte integrante del lavoro creativo di Charles Rennie Mackintosh. Margaret era “geniale”, così la magnificherà l’artista negli ultimi anni della sua vita, mentre a suo dire lui aveva solo talento. Nel 1927, separati per questione di salute, le scriverà da Port Vendres: «Tu sei metà, o anche tre quarti, all’origine della mia opera architettonica».

Margaret era un’eccellente colorista, e questo fa capire meglio quegli eterei ambienti tinti di bianco, scarni di mobili, all’opposto di quelle stanze d’epoca vittoriana, soffocate da sovrabbondanti cortinaggi e imbottiti capitonné. Non sorprende, quindi, se chi trovava sempre da ridire e criticare, insensibile a una nuova visione di modernità, appioppò ai The Four il soprannome di Ecole des Ectoplasmes. I Quattro non avevano affatto intenzione di fare scuola, né come s’è detto la fecero mai. Generarono idee, questo sì. Due fatti positivi vanno evidenziati. Il primo: la partecipazione nell’autunno del 1900 all’Ottava Mostra della Secessione viennese. In verità, dopo i ripetuti riscontri negativi ricevuti in madrepatria, pensavano che all’estero gli sarebbe stato riservato l’ennesimo flop. L’accoglienza al contrario fu entusiasta, soprattutto da parte di Hoffmann, Moser, Olbrich, Klimt. Il secondo fatto positivo fu che l’architetto Hermann Muthesius, nominato dal Kaiser addetto culturale e tecnico dell’ambasciata tedesca a Londra, nel 1904 scrisse un libro di design e storia dell’architettura. Titolo: La casa inglese: sviluppo, condizioni, impianto, struttura, arredamento e interni (Das englische Haus: Entwicklung, Bedingungen, Anlage, Aufbau, Einrichtung und Innenraum). Nel libro non mancò di riservare elogi al Movimento di Glasgow, identificato con Charles Rennie Mackintosh. I Quattro facevano spiccare il design, così come il colore, la forma, l’atmosfera. «Il vero genio alla guida è Rennie Mackintosh; lo affianca il gruppo originario, Herbert McNair e le due ex Miss, Margaret e Francis Macdonald, l’attuale signora Mackintosh e la signora McNair. Tutti parlano lo stesso linguaggio artistico con grande convinzione, tanto che questi stessi, a ben vedere tra loro diversi, dimostrano di poter lavorare insieme alla stessa opera senza che l’unità ne sia minimamente ostacolata». Muthesius faceva altresì riferimento ai legami culturali ed artistici in ambito europeo: «Gli scozzesi, non solo trovarono vivi riconoscimenti nel continente, non appena vi apparvero, ma qui furono il germe da cui nacque un nuovo linguaggio delle forme in divenire, specialmente e durevolmente a Vienna, dove si stabilirono legami indissolubili tra loro e i leader del movimento viennese». Tutto vero. Gustav Klimt fu profondamente influenzato dai Quattro. Per il fregio di Beethoven del 1902 s’ispirò ai pannelli in gesso di Margaret Macdonald-Mackintosh, ammirati due anni prima a Vienna. Alcuni mobili, come il secrétaire e il Rose Boudoir furono all’Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa Moderna di Torino nel 1902.

Margaret Macdonald Mackintosh, The May Queen esposto a Vienna nel novembre 1900 nel padiglione della Secessione. 
Charles Rennie Mackintosh, Wassail della sala da pranzo delle signore in Ingram Street, 1900 di Charles Rennie Mackintosh. 

In questi anni non si può però negare che il maggiore successo di Mackintosh sia legato alle architetture realizzate soprattutto a Glasgow. Vinse il concorso per la Glasgow School of Art (1897-1899), elevò la Queen’s Cross (1897-1899) sua unica chiesa, progettò la casa del Bellahouston Park (costruita, l’ho detto, solo tra il 1989 e il 1996), la Scotland Street School (1903-1906). Così come realizzò il suo primo progetto abitativo a Kilmacolm con la Windy Hill (1899-1901) e insieme a sua moglie l’arredò; a seguire la Hill House a Helensburgh (1902-1904). Progetti che lo fecero considerare un architetto d’avanguardia. Edifici privati e pubblici di cui disegnò strutture ed arredi interni: mobili lineari dalle forme essenziali, ispirati al Giapponismo che tanto lo aveva impressionato. Ad esempio, nella nuova scuola d’arte ideò le suppellettili per le aree comuni dell’edificio (coi sedili incassati nei corridoi ad uso degli studenti) e quelli più raffinati e leggeri per le stanze del corpo docente, la sala consiliare, l’ufficio del preside.

Catherine Cranston

Tra il 1903 e il 1904 Mackintosh si dedicò a realizzare la Willow Tearooms, una delle sale da tè di Miss Cranston. Figlia di un commerciante di tè di Glasgow, Catherine Cranston era un’energica imprenditrice e una entusiasta sostenitrice della temperanza. Da anni si batteva contro l’alcolismo, così pensò bene di proporre un’alternativa ai ruvidi pub, con lo scopo di distrarre uomini e donne dall’ubriacarsi incorreggibilmente di birra e whisky (quello buono scozzese). Soprattutto donne, alle quali propose luoghi di ritrovo, delle sale dove ci si potesse incontrare per il tipico rito inglese del tè nei suoi differenti aromi, con latte o panna, accompagnato da caramel e chocolatte cake, o semplicemente sorbire bevande rigorosamente analcoliche, a tutte le ore del giorno, in ambienti eleganti e confortevoli.

La Room de Luxe nella Tearooms com’era nel 1903

Il successo fu immediato, cosicché l’intraprendente signorina s’inventò il concept – diremmo oggi – di un locale mai sperimentato, aggiungendo alla sala da tè, spazi dedicati alle signore, una sala da pranzo, e per i loro mariti una sala da biliardo e una sala fumatori. Riuscì a concretizzare l’idea nel 1895, quando il maggiore Cochrane, divenuto suo marito, le offrì in dono di nozze l’intero edificio al 114 di Argyle Street, occupato fino a quel momento solo parzialmente. Spinta dal successo riscosso, nel medesimo anno, Kate Cranston acquistò altri due nuovi locali, al 205-209 di Ingram Street e al 91-93 di Buchanan Street. Nel 1903 acquisì anche l’intero stabile di Sauchiehall Street, che presto sarebbe diventato famoso col nome di Willow Tearooms. La storia di Kate Cranston corre parallela a quella dell’architetto Mackintosh, al quale fu affidata una serie di incarichi legati ad una crescente considerazione. Iniziò nel 1896, svolgendo il semplice ruolo di decoratore, realizzando i pannelli della sala di Buchanan Street. Nel 1898 la commissione contemplò i mobili della sala di Argyle Street; nel 1900 allestì un’intera sala in Ingram Street, che da allora fu chiamata White Dining Room. Infine, nel 1903 gli venne affidato l’intero progetto dell’innovativa Willow Tearooms in Sauchiehall Street. Oggi è l’esercizio più famoso di Glasgow. La libertà di ideare portò Mackintosh a dare il meglio di sé: fu per Argyle Street che disegnò la celebre sedia con lo schienale alto con il taglio ovale, fu per la Willow Tearooms che ideò la sua sedia con lo schienale a scala e quella ancor più famosa con lo schienale curvo.

Sedia Argyle per l’omonimo locale
Willow Chair per la Willow Tea Room

In questi anni la vita di Mackintosh è un rincorrersi di successi che s’interromperanno nel 1909 quando l’ampliamento della Glasgow School of Art segnerà l’apice della sua carriera architettonica e l’inizio del suo declino. Come recentemente osservava l’artista scozzese Mary Newbery Sturrock, sua concittadina: «Dopo l’apertura della seconda sezione della School of Art, Mackintosh ricevette pochissime commissioni, senza dubbio perché Glasgow aveva uno spirito molto provinciale. Non prendevano sul serio le sale da tè e trovavamo la School of Art alquanto bizzarra». Così mentre la sua reputazione cresceva in Europa, crollavano gli incarichi grazie ai quali effettivamente viveva. Causa principale l’estrosità dei suoi progetti Art Nouveau, ma anche l’insistenza a riproporre l’architettura scozzese, o quelle sue murature spoglie il cui trattamento anticipava le intonacature bianche del Movimento razionalista. Secondo qualche critico d’arte Mackintosh non ebbe il coraggio di lottare: da un lato contro la sempre dominante azione frenante dei committenti e, allo stesso tempo, contro l’avanguardia europea affascinata dalla tecnica. Ma queste sono questioni che interesseranno la vita di Mackintosh negli anni a venire. Perché quando ogni possibilità sembrò svanire i coniugi scoraggiati, lasciarono Glasgow per trascorrere l’estate del 1914 a Walberswick in compagnia di una piccola comunità artistica, prendendo casa in affitto.

Mackintosh, Walberswick, acquerello

Non sfuggirà la data: la dichiarazione di guerra dell’agosto 1914 pose fine a qualsiasi programma di espatrio. A fine estate, anziché rientrare, rimasero a Walberswick, nel Suffolk, cioè sulla costa orientale. La posizione strategica e le norme restrittive portarono a credere che quel curioso personaggio, dall’accento forestiero, che faceva lunghe passeggiate fuori dall’abitato, fosse sospetto. Venne arrestato, per via degli strani messaggi postali scambiati con la Germania e l’Austria-Ungheria, rinvenuti durante la perquisizione della casa. Anche questa è l’ironia di una sorte avversa. Fu rinviato a giudizio, portato in tribunale e accusato di spionaggio. Alla fine, fu scagionato, ma dovette comunque lasciare la costa. Decise di stabilirsi a Londra, dove abitò per otto anni. Ma non lo conosceva nessuno e gli incarichi languivano. Philip Mairet, un disegnatore che collaborò con lui, lo ricorda crudamente: «Non era molto gentile con me, indubbiamente perché era perennemente imbevuto di alcol […] Mi dava l’impressione di un brillante signore decaduto». Quando le ristrettezze finanziarie cominciarono a diventare pressanti la coppia, sempre unita profondamente per ventotto anni, portò i propri sogni controcorrente in Francia, a Port Vendres, un piccolo porto in prossimità del confine spagnolo, dove le spese erano contenute rispetto a Londra. Per loro, il tempo trascorse a studiare i fiori e a dipingere acquerelli: piante, paesaggi e scorci locali. Questa sarà l’attività prevalente del grande architetto per i successivi cinque anni che gli rimarranno da vivere. Anni di idee non realizzate.

Mackintosh, Un porto del sud, acquerello di un angolo di Port-Vendres

Mackintosh Architecture è un sito web, realizzato all’Università di Glasgow, che fornisce un catalogo riccamente illustrato di tutti i progetti architettonici conosciuti di Charles Rennie Mackintosh. Il sito fornisce altresì voci dedicate ai progetti dello studio John Honeyman & Keppie / Honeyman, Keppie & Mackintosh durante gli anni 1889-1913; immagini e dati dei libretti d’ufficio; un catalogo ragionato di oltre 1200 disegni di Mackintosh; saggi analitici e contestuali; biografie di oltre 400 clienti, colleghi, appaltatori e fornitori; sequenza temporale; glossario; e bibliografia.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Victor Horta – Con steli di fiori esotici animava spazi fluidi e avvolgenti

di Sergio Bertolami

25 – La struttura metallica a vista cambia l’architettura

Bruxelles nel decennio 1980-90 fu un evidente centro propulsore d’arte contemporanea, tanto da essere considerata una delle principali capitali europee dell’Art Nouveau. Qui due facoltosi avvocati come Octave Maus ed Edmond Picard erano stati tra i fondatori, prima del circolo dei Vingt, poi del settimanale L’Art Moderne. Così, oltre che nel campo figurativo col Simbolismo, Bruxelles esercitò la sua influenza anche nei campi della decorazione e dell’architettura. Elogiando proprio l’architettura, sul finire del secolo, il quotidiano austriaco Neue Wiener Tagblatt scriveva che mai prima dall’ora in tutta Europa era stato elevato un edificio così nuovo come Casa Tassel di Victor Horta: «Nessun dettaglio è tratto da qualcosa che esisteva già». Casa Tassel è oggi considerata l’opera fondante dell’architettura Art Nouveau. Jan Romein nel suo libro All’incrocio di due secoli (Op het breukvlak van twee eeuwen, 1976) fa notare che Victor Horta, quando disegnò quell’edificio, aveva appena trent’anni, mentre “suo fratello nella nuova arte”, Henry van de Velde, era di due anni più giovane: «Sebbene forse un po’ meno talentuoso, quest’ultimo sarebbe diventato molto più famoso, possedendo, oltre a tanti altri suoi doni, quello della parola». La sostanziale differenza fra i due, a vantaggio di van de Velde, fu quella di trovare uno spazio di lavoro più ampio in Germania, e soprattutto quella d’interessarsi per tutta la sua vita alla “nuova industria leggera”, ovvero alla produzione di beni di consumo. La fama di Victor Horta, invece, fu tutta legata ai suoi capolavori architettonici in stile Art Nouveau, ma poiché il movimento sfiorì nell’arco di una ventina d’anni il suo successo personale si concluse precocemente e Horta perse la sua notorietà nella quasi completa indifferenza. Tant’è che le opere successive alla Grande Guerra – il Musée des Beaux-Arts di Tournai (1928) può essere un esempio – fecero regredire la sua arte immaginosa agli stilemi classicheggianti e convenzionali del Pavillon des Passions humaines (1890-1897) dei suoi inizi.

Scalone di Casa Tassel, Bruxelles

Tuttavia, poiché l’esercizio preferito di molti critici contemporanei è quello delle graduatorie, Romein ci mette al corrente che non solo Horta, ma anche Mackintosh e Behrens e de Bazel, per non parlare di Wright, furono migliori architetti di van de Velde, il quale persino come teorico fu superato da Hermann Muthesius. Nonostante ciò, l’illustre critico deve ammettere che «van de Velde, a volte sopravvalutato, rimane comunque rappresentativo del rapido cambiamento nel pensiero e nell’agire all’inizio del secolo». Dal canto suo, van de Velde ben conscio che opinioni e rivalità possono essere molteplici, puntualizzando implicitamente ambiti d’interesse professionale differenti, annotava nell’autobiografia: «Lascio agli altri discutere su quale dei quattro primi fuoriclasse belgi tra il 1893 e il 1895 – Georges Serrurier-Bovy e io nel campo dell’arredamento e della decorazione, Paul Hankar e Victor Horta nel campo dell’architettura – viene data la priorità creativa».

Articolo su Victor Horta del gennaio 1897 da Archivi delle arti applicate italiane del XX secolo

In verità, le frizioni si manifestarono soprattutto quando a conclusione del primo conflitto mondiale il re Alberto I considerò che fosse giunto il momento di richiamare il “grande artista” in Belgio. L’interesse verso van de Velde era nato con l’Esposizione universale di Bruxelles del 1910, allorché si era presa in considerazione l’idea di fondare una Scuola di arti e mestieri sul modello del suo Istituto di Weimar. Il progetto prese avvio intorno al 1922, quando Camille Huysmans divenne Ministro dell’Istruzione, delle Arti e delle Scienze nel governo di M. Prosper Poullet. Finalmente nel 1925 fu istituito a Bruxelles l’ISAD (Institut Supérieur d’Architecture et des Arts Décoratifs). «Non appena si resero note le decisioni ministeriali di Camille Huysmans – scrive van de Velde –, contro di lui e contro di me iniziò una faida di stampa di inaudita violenza. Victor Horta sedeva a capo dei gelosi e mediocri architetti belgi, che poteva facilmente aizzare contro di me, perché temevano tutti la mia autorità e superiorità, ma soprattutto il mio rientro nella vita professionale architettonica del Belgio. Lo stesso Horta non aveva motivo per lamentarsi di me. Nel periodo in cui vivevo e lavoravo in Germania o in altri paesi europei, non c’era ragione di inimicizia da parte mia nei suoi confronti, se non la sua avversione e la sua ambizione». La realtà, tutto considerato, è che siamo davanti a due antagonisti di grande ingegno, dei quali apprezziamo le qualità creative, senza tralasciare gli aspetti umani. In tal senso, è facile comprendere che la genialità di Victor Horta consisteva nel sapere unire tutte le qualità in ogni sua opera, rivoluzionando l’architettura eclettica dell’epoca: la libertà compositiva, la fluida suddivisione dello spazio, la robustezza strutturale, la forza creativa che attrae sia negli esterni come negli interni.

Tali qualità le ritroviamo tutte nelle quattro abitazioni private (hôtels) incluse nel 2000 nell’elenco dei Patrimoni dell’umanità dell’UNESCO. Enumeriamole:
– Hotel Tassel, progettato e costruito per il Prof. Émile Tassel nel 1892 – 1893;
– Hotel Solvay, progettato e costruito nel 1895 – 1900;
– Hotel van Eetvelde, progettato e costruito nel 1895 – 1898;
– Maison e Atelier Horta, progettato nel 1898, che ora ospita il museo Horta, dedicato al suo lavoro.

Hotel Tassel, rue Paul-Emile Janson 6, Ixelles (Bruxelles)
Hotel Solvay, Avenue Louise 224, Bruxelles
Hotel van Eetvelde, Bruxelles
Musée Horta, Casa personale e Studio di Victor Horta, Saint-Gilles (Bruxelles)

Per sintetizzare in poche righe le motivazioni del Comitato UNESCO, le quattro progettazioni di Victor Horta fanno parte delle opere di architettura più innovatrici della fine del XIX secolo. La rivoluzione stilistica che le caratterizza è rappresentata dalla pianta aperta, dalla diffusione della luce e dalla brillante integrazione delle linee curve della decorazione alla struttura dell’edificio. Proprio per evidenziare questa integrazione basterà far notare che l’alternativa alle tradizionali murature autoportanti erano le strutture in ferro o ghisa per consuetudine annegate in setti, tramezzi e tompagni, rendendo il tutto indistinto sotto strati di intonaco. Horta, in modo sorprendente per il tempo, pensò bene di mettere in mostra gli elementi strutturali metallici, ma soprattutto di forgiarli come vere e proprie ramaglie vegetali. Parlando della sua ispirazione floreale Horta amava dire: «Lascio il fiore e la foglia, e prendo lo stelo». L’effetto fu spettacolare. Un materiale tutto sommato nuovo come il ferro fu utilizzato per esprimere un linguaggio formale. Combinato con il vetro lo si era già visto nei grandi Palazzi delle Esposizioni universali, ora lo si ritrovava armonizzato nei palazzi privati con il bronzo, la pietra e il legno. Horta cambiava in questo modo il volto dell’architettura. «Il linguaggio del design unico di Horta – scriveva Frans Boenders sulla rivista Fiandre – è stato descritto come lo stile del “colpo di frusta”. In effetti, il dinamismo estremamente resistente di queste forme, che si ritrova nell’intera concezione spaziale, così come nei minimi dettagli, è l’aspetto più sorprendente dell’arte architettonica e d’interni di Horta. Nessun architetto ha avuto tanto successo nel mettere insieme materiali prima considerati incompatibili; Horta è un vero maestro nell’armonizzare il legno vivo e caldo con la pietra fredda e lucente e il ferro duro ma aggraziato».

Schizzo di progetto della Maison e Atelier Horta

Si potrebbe pensare che requisiti come la solidità dei materiali costruttivi, la luminosità e l’ampiezza degli spazi, la ricchezza decorativa, siano prerogative esclusive delle classi abbienti. Eppure, tra le pieghe del lusso e dell’eleganza, dei consumi e dello sfarzo, con l’Art Nouveau cominciò a farsi strada un’arte sociale che trasformò non solo i palazzi dei facoltosi ma anche i grigi quartieri degli operai. Nel descrivere il progetto della Maison du Peuple, particolarmente toccanti echeggiano le parole di Victor Horta nelle sue Memorie inedite (uscite a stampa solo nel 1985). La Maison du Peuple è il suo capolavoro assoluto, ma evidentemente questo edificio iconico non era considerato altrettanto nel 1964, quando fu smontato e smembrato, per liberare l’area sulla quale edificare un grattacielo.

Cecile Duliére, Victor Horta, Mémoires, Ministère de la Communauté Francaise, 1985.

«Sono stato scelto per costruire la Maison du Peuple, perché si voleva un edificio che esprimesse la mia concezione estetica. Il tema era interessante: costruire un palazzo che non fosse un palazzo, ma una vera “casa” in cui l’aria e la luce divenissero il lusso per tanto tempo negato ai tuguri operai; una casa, sede dell’amministrazione, degli uffici delle cooperative, di locali per riunioni politiche e professionali, di un bar […], sale per conferenze destinate a diffondere l’istruzione, e infine una immensa sala di riunioni per il dibattito politico e i congressi del partito e gli svaghi musicali e teatrali degli iscritti». Tra il 1895 e il 1899, in rue Stevens, Horta costruì La Casa del popolo per il Parti Ouvrier Belge di Camille Huysmans, con le finanze della borghesia industriale e l’entusiastica approvazione dei dirigenti socialisti. Anche lui, simpatizzava per il socialismo, come van de Velde e la maggior parte degli architetti modernisti belgi. Qualcuno oggi commenta, storcendo il naso, che Horta era un socialista da salotto ed anche un massone, iscritto alla loggia Les Amis Philanthropes. Molti eminenti liberali e socialisti belgi erano impegnati, allora, nella Massoneria, essendo per molto tempo l’unico movimento organizzato del Belgio. Qualcuno dice, ancora, che lo stesso Camille Huysmans fece costruire questo “palazzo di cristallo” del proletariato, ma lo fece anche demolire, sottoscrivendo il decreto che stabiliva che la Maison du Peuple dovesse essere smontata e sostituita. Di sicuro sappiamo che per la casa del popolo i socialisti dell’epoca avevano voluto il medesimo architetto che un anno prima aveva costruito il palazzo in Avenue Louise per l’industriale Solvay. Qui ogni operaio avrebbe potuto partecipare alle riunioni, imparare a leggere, scrivere e far di conto. «Par nous Pour nous», questo era il motto: Da noi Per noi.

Restituzione in 3D della Maison du Peuple – Filmato
CLICCA QUI

Nonostante una trama edilizia fitta e irregolare, formata da palazzi borghesi accuratamente progettati e di buon gusto, costruiti secondo i dettami dell’arte in tutti gli stili ottocenteschi – neogotico, neorinascimentale, neoclassico – con un prospetto che assecondava l’arco di una piazza circolare e in pendenza, Horta riuscì a realizzare uno strepitoso edificio in metallo di quattro piani. Quattro, quasi come gli anni che impiegò per progettarlo e farsi appioppare il soprannome di “ritardatario”. Horta svolgeva il suo lavoro con grande meticolosità: «Ogni cosa – considerava – è una somma di dettagli, ma ogni dettaglio è utilizzabile se è pensato, disegnato e fabbricato». Quando l’opera fu realizzata, il plauso fu unanime. Il Consiglio di Amministrazione del Parti Ouvrier Belge (POB – Partito Operaio Belga) magnificò il lavoro con queste parole: «Ora che la Nouvelle Maison du Peuple è costruita, ora che suscita l’ammirazione sia degli abitanti di Bruxelles che degli stranieri, possiamo essere fieri del nostro palazzo e prima di tutto, noi teniamo a ringraziare Horta e a complimentarci con lui, il nostro architetto che ha così compreso le aspirazioni della Cooperativa socialista e i bisogni del partito operaio di Bruxelles e ha messo al nostro servizio il suo grande talento di architetto e di artista per darci piena e completa soddisfazione. È possibile che il suo modo di lavorare, non apprezzato inizialmente dai sindacati operai abbia talvolta potuto scontentarli, che la generale impazienza di poter disporre di nuovi locali abbia fatto parlare di lentezza nel portare a termine questa costruzione, ma, quando, come nel nostro caso, si è al corrente della attività costante che ha regnato durante questi tre anni e mezzo, delle innumerevoli difficoltà che si sono dovute sormontare, si è obbligati a riconoscere, in tutta sincerità, che l’edificazione della nuova Maison du Peuple è stata in gran parte, un’opera di dedizione di tutti quelli che vi hanno partecipato e in particolare del suo architetto e dei suoi collaboratori».

Restituzione in 3D della Maison du Peuple – Rendering
CLICCA QUI

L’opera spiccò subito per la sua funzionalità. Il pianoterra destinato a negozi e persino ad un caffè-ristorante; al primo piano, gli uffici e le sale riunioni del Partito, oltre a una biblioteca per studiare; al secondo e terzo piano, diverse sale pluriuso; al quarto piano, un grande auditorium e una sala da concerto con una capienza di oltre 2.000 posti a sedere. Horta vedeva in tutto questo una duplice sfida: costruire un palazzo in stile Art Nouveau su uno spazio impossibile e farne una casa per il popolo in uno stile a prima vista riservato alle élite. Sottolinea Paolo Portoghesi a questo proposito: «La consapevolezza del maestro rispetto al significato politico che la sua architettura aveva assunto è chiaramente espressa nelle Memorie inedite dove afferma esplicitamente, riferendosi ai suoi amici della cerchia di Solvay: “Noi eravamo dei rossi, senza per questo aver pensato a Marx o ad altre teorie”. L’architetto parla esplicitamente di “profanazione” prodotta dall’apparizione del metallo nell’hotel Solvay e, interpretando le reazioni di madame van Eetvelde ai progetti della sua casa dell’avenue Palmerston, scrive: “Lo stile modernista soprattutto con il ferro in vista, elemento principale ma grossolano e miserabile, […] era popolo”». È possibile, riflette Portoghesi, che per gli operai che videro sorgere la loro Casa comune probabilmente quel ferro, tanto “grossolano e miserabile” per la signora van Eetvelde, non avesse «un significato così chiaro ed univoco da dar loro l’impressione di una simbolica identificazione coi loro interessi e le loro aspirazioni». È presumibile. È certo, invece, che la demolizione del 1964 ha fatto perdere un documento storico, un segno consolidato dello spirito del tempo, tanto da far nascere un termine come Brusselizzazione (Brusselization) per identificare un’indiscriminata pianificazione urbana senza idee e senza qualità. 750 persone firmarono per salvare il capolavoro di Victor Horta. Tra loro numerosi architetti come Mies van der Rohe, Walter Gropius, Alvar Aalto, Gio Ponti, Jean Prouvé, Ieoh Ming Pei. La demolizione non venne fermata e la Blaton Tower, un grattacielo di 26 piani, sostituì quell’edificio diventato troppo angusto per le esigenze del Partito dei Lavoratori, quell’edificio innalzato da un architetto ormai dimenticato e in uno stile fuori moda: L’Art Nouveau e i suoi precursori non interessavano se non ai cultori dell’arte moderna. «Ricordo oggi con raccapriccio – racconta ancora Portoghesi – che la notizia della demolizione in corso, con la conseguente dispersione di molte delle parti metalliche della Maison du Peuple, scatenò in molti studenti e architetti il desiderio di procurarsi delle reliquie, corrompendo gli operai addetti allo smontaggio. A Roma circolavano allora maniglie e cerniere conquistate con spedizioni mirate a Bruxelles».

Victor Horta nel 1900

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay