Art Nouveau – “Il delirio… il delirio della bruttezza!”

di Sergio Bertolami

24 – l’ideale sociale di Henry van de Velde.

Dicono bene i critici, che parlano di Henry van de Velde, l’esposizione fatta nel negozio di Bing il 26 dicembre 1895 e l’esposizione del 1897 a Dresda, «contribuirono fortemente alla diffusione delle sue idee e alla sua fama in Europa tenuta viva anche dalla forza del suo esempio, dalla sua continua preoccupazione didattica e di sollecitazione culturale che egli esercitò con i suoi scritti, con la sua attività di propaganda delle idee, le sue conferenze, le sue lezioni» (Lara Vinca Masini). Eppure, come sappiamo, per van de Velde questo inizio fu alquanto turbolento. Auguste Rodin lo insultò verbalmente fuori del negozio, Edmond de Goncourt lo fece per iscritto sul suo Journal. Tali improperi rendono perfettamente un momento di passaggio come questo, perché siamo dinanzi a personaggi illustri della storia dell’arte, colti però in un flash che ritrae un presente dissociato, tra il passato illustre dell’arte francese che dettava all’Europa le proprie influenze e un futuro internazionale tutto da scrivere. A ben considerare, quanti frenavano l’innovazione non erano soltanto i denigrati conservatori, ma anche gli innovatori di ieri che faticavano a comprendere gli innovatori di oggi. Perciò, prendiamo atto dell’irritazione di Edmond de Goncourte e leggiamo per intero quanto aveva da dire: «Lunedì 30 dicembre. – Exposition Bing. Non sono contrario all’idea della mostra in quanto tale, ma solo all’evento del giorno, l’esposizione di oggi. Cosa? Il nostro paese, che ha prodotto mobili civettuoli e paffuti per il comfort del XVIII secolo, è minacciato da mobili duri e spigolosi che sembrano fatti per abitanti delle caverne e palafitticoli ignoranti. La Francia sarebbe condannata a forme premiate in un concorso di bruttezza. Condannata cioè a coppe dalla forma di bacche, finestre e cassettiere improntate allo stile “oblò di una nave”, a schienali di divani, di poltrone, di sedie, che si richiamano alle rigide piattezze di fogli di lamiera e con rivestimenti tessili dove uccelli, color cacca d’oca, volano sul risciacquo blu di una saponata, condannata a specchiere da bagno e altri mobili imparentati coi lavandini di un dentista, nei dintorni di un obitorio. E un parigino dovrebbe mangiare in questa sala da pranzo, al centro di boiserie finto mogano decorate con questi arabeschi in polvere d’oro, accanto a un siffatto camino che sembra un radiatore per scaldare gli asciugamani di uno stabilimento balneare; e un parigino dovrebbe dormire in questa camera da letto, tra queste due sedie di gusto terrificante, in questo letto che altro non è che un materasso adagiato su di una lastra tombale? Davvero, saremmo snazionalizzati, sottomessi moralmente da una occupazione peggiore della guerra [franco-prussiana], in questo tempo in cui non c’è più posto in Francia che per la letteratura moscovita, scandinava, italiana, e forse presto per quella portoghese, in questo tempo in cui sembra anche non esserci più posto in Francia che per i mobili anglosassoni oppure olandesi. Non quello, il futuro mobile francese, quello no! No! Uscendo da un’esposizione di tal genere, come non potevo fare a meno di ripetere ad alta voce per la strada: «Il delirio… il delirio della bruttezza!». Tanto che, un giovane, avvicinandosi, mi disse: «State parlando con me, signore?».

Volume del Journal di Edmond de Goncourt
nel quale compare il brano su Henry van de Velde

Sul marciapiede di fronte al negozio di Bing, poi sul Journal, Edmond de Goncourt imprecò che il più ridicolo degli espositori, van de Velde, aveva progettato i suoi mobili applicando uno “stile yacht”. «Inconsciamente c’era del vero in questa osservazione – commentò anni dopo, in risposta, lo stesso van de Velde nell’autobiografia – De Goncourt ha riconosciuto l’essenza del “design razionale” che legava i miei mobili alle navi». Una relazione davvero sorprendente, anticipatrice di almeno un quarto di secolo. Henry Van de Velde era a tutti gli effetti un precursore, piuttosto che un innovatore. Al tavolo verde dell’arte, non faceva il suo gioco con singolare maestria, usava direttamente un nuovo mazzo di carte. In breve, il verdetto generale fu devastante, ma l’arte nuova s’impose ugualmente; ma quale arte nuova? Negli articoli apparsi sulle riviste qualche critico imparziale riconobbe l’importanza della mostra, come Gabriel Mourey che su The Studio, il mensile d’arte inglese più vivace dell’epoca, il 3 gennaio 1896, in un saggio intitolato The Big Event of the Present Art Season, scriveva: «Questi uomini sono alla ricerca di un’arte semplice e profonda; usano un buon metodo per farlo: un infaticabile sforzo. Il loro contributo personale può essere riconosciuto da alcuni dettagli. Ad esempio, se si guardano le stanze progettate da Henry van de Velde, vi si noterà l’equilibrio di tutte le linee del mobile, volute in modo consapevole; si riconoscerà la grazia sottile nella cornice di un vetro o di uno specchio, e si vedrà come le incrostazioni di rame intarsiate nel legno, intorno alla stanza, si traducano in una serie di arabeschi di grande fascino».

Mostra ‘Art Nouveau’ nel negozio di S. Bing, Parigi, dicembre 1895. Sala da pranzo
Mostra ‘Art Nouveau’ nel negozio di S. Bing, Parigi, dicembre 1895. Sala fumatori. Lavorazione del legno di mogano, finestra, pannello a mosaico, specchiera e divano. I mosaici e il fregio sono di G. Lemmen da Bruxelles.

Com’era stato concepito il progetto? Lo racconta van de Velde stesso. Un giorno, dopo che la prima pietra della casa Bloemenwerf era stata posta sul terreno in pendenza, si presentarono alla porta due signori sconosciuti. I loro biglietti da visita riportavano il nome di S. Bing e Julius Meier-Graefe. Il primo, lo aveva sentito solo nominare: in quegli anni, nessun “amante del Giappone”, recandosi a Parigi, avrebbe mancato di visitare la galleria di Bing in rue de Provence. Il compagno di viaggio, gli fu presentato come uno scrittore e critico d’arte tedesco. Stavano facendo un giro, oltremanica e in vari paesi del continente, per rintracciare segni di rinascita dell’artigianato: da Bruxelles intendevano recarsi in Inghilterra, poi in Olanda e da lì in Danimarca, Germania e Austria. Quella mattina Bing e Meier-Graefe avevano visitato a lungo la Kunsthaus, una Maison d’Art allestita a Bruxelles nella precedente casa di Edmond Picard. L’idea che ventilavano era che necessitasse fornire agli sforzi individuali degli artisti e degli artigiani un sostegno commerciale, tale da garantire una maggiore risposta del pubblico. Della casa di van de Velde apprezzavano le pareti appena tappezzate con la carta da parati “Dahlia”, l’effetto armonioso del suo rosso amaranto, del verde e del blu indaco, in sintonia con il colore del legno di cedro dei mobili. Conoscevano van de Velde dai suoi articoli e mostrarono una cartella di ritagli sull’argomento, tuttavia, Bing, stava ben attento a non rivelare che il suo tour europeo potesse farlo decidere a realizzare una Maison d’Art del genere. Lo fece qualche settimana più tardi, quando fu van de Velde a raggiungerlo a Parigi nel suo piccolo studio in rue Vézelay. «Senza ulteriori preamboli – commentava van de Velde – mi informò della decisione di convertire la sua galleria in rue de Provence in una casa per L’Art Nouveau. La visita alla Kunsthaus di Bruxelles, gli aveva fatto una grande impressione e credeva nel futuro di tali imprese. Il suo tour lo aveva convinto che fosse imminente una rinascita dell’artigianato e che gli artisti che aveva visitato nei vari Paesi erano decisi a rompere con l’imitazione degli stili un tempo consueta». Decisero di avviare insieme l’iniziativa, ma dai primi incontri operativi emerse la preoccupazione che la mostra avrebbe provocato critiche e ostilità. La stampa a pagamento avrebbe spinto il pubblico a credere in una operazione antipatriottica, condotta da ribelli, per lo più stranieri, determinati a strappare alla Francia una proprietà culturale inalienabile. Non solo idealmente, ma anche materialmente, suscitando timori che sarebbe stata messa in crisi l’indiscutibile superiorità dell’industria artistica francese.

Mostra di arti applicate Dresda, 1897, sala relax

Henry van de Velde cominciò a pensare di avere accettato piuttosto incautamente l’incarico di Bing. Per una serie di ragioni. Anzitutto era chiaro il fatto di trovarsi in prima linea in una battaglia contro «i mobili e le suppellettili delle dimore in cui si nascondeva la società francese». La seconda ragione nasceva dai tempi di consegna molto stretti, dovendo installare a Parigi tanti arredi e complementi in date stabilite. Difficile oltretutto era ottenere specifici materiali dall’estero. Gli veniva richiesto di realizzare un salotto in legno di limone, una grande sala da pranzo in legno di cedro, una sala fumatori in paddock del Congo, una sala più grande rotonda con mobili e pannelli da parete coordinati. A tutto ciò si aggiungevano apparecchi d’illuminazione, carte da parati, tessuti e tappeti, ideati da altri artisti, ma da comporre in modo armonioso. La terza ragione aveva carattere progettuale: «Per quanto mi riguardava direttamente, ho avuto anche qui il mio problema. Quello che avevo creato fino ad allora era sempre stato destinato a stanze esistenti e a clienti di cui conoscevo gusti ed esigenze. In caso di dubbio, avrei potuto discuterne con loro. Lavorare per clienti sconosciuti e per stanze immaginarie mi risultava estraneo. Questa volta, al contrario, avrei dovuto progettare intere stanze basate su vari mobili tutti ideati da me. Alla fine, mi sono abituato a queste condizioni insolite, ma solo lentamente e con difficoltà, temendo sempre di non essere in grado di consegnare ciò che in quel momento si stava chiarendo nella mia mente con insolita fretta». Tali preoccupazioni furono, comunque, tutte superate; ma quando la presentazione ebbe luogo, van de Velde già a sfogliare il catalogo si accorse del problema maggiore: la mancanza di unità e di contesto, rispetto a quanto Bing e Meier-Graefe immaginavano come Art Nouveau. Van de Velde prese a domandarsi come si fosse mai potuta allestire una mostra senza un programma definito, se non quello della novità fine a sé stessa: «In quale altro modo si sarebbero potute presentare sotto lo stesso termine collettivo le mie creazioni e quelle di Carabin, i vetri di Tiffany, Powell e Köpping, i candelieri di Benson ed Eckmann? Per avere un’idea dei principi del tutto oscuri di Bing, basti ricordare che accanto alle mie stanze, i visitatori potevano ammirare una camera da letto progettata da Maurice Denis, i cui mobili erano altrettanto assurdi quanto la poltrona del famoso scultore Carabin […] Se Bing avesse riconosciuto i principi fondamentali e gli obiettivi morali a cui tendevo con tutte le mie forze, avrebbe sicuramente rifiutato il mio lavoro. L’idea di fondere la morale con il design artistico, di fare ritorno a forme semplici e vere non poteva significare nulla per lui». Insomma, quella di Bing era una Maison d’art nouveau ou de nouveautés artistiques? Esponeva i risultati di una creatività innovativa o semplicemente una serie di nuovi pezzi d’arte?

Laboratorio della ‘Société van de Velde’ a Ixelles, nel 1899, sulla destra l’architetto mentre esamina un disegno di progetto

Queste osservazioni non erano peregrine: coglievano quantomeno il desiderio di Bing di scoprire una “nuova eleganza” più orientata al virtuosismo pittorico di Boldini o Gandara, alle fantasie orafe di Lalique. Differente era invece l’impronta di van de Velde e il suo percorso futuro lo dimostrerà compiutamente. Poche settimane dopo l’apertura della scandalosa mostra in rue de Provence, una delegazione guidata dal direttore generale dei musei di Dresda, Woldemar von Seidlitz, visitò la galleria di Bing e chiese di reinstallate nel Palazzo delle Esposizioni di Dresda le quattro stanze realizzate dal designer belga, in occasione dell’Esposizione Internazionale d’Arte del 1897. Inoltre, si chiedeva di realizzare una grande “sala relax” per i visitatori. Dopo appena tre settimane dall’inaugurazione dell’Esposizione, van de Velde divenne talmente famoso in tutta la Germania da essere sommerso di incarichi progettuali. Il crescente numero di commesse tedesche superò rapidamente, per importanza e valore monetario, le commesse belghe. Per converso, si profilarono all’orizzonte problemi organizzativi ed economici che avrebbero portato a cambiamenti radicali. Il più importante fu sicuramente la nascita della Société van de Velde, per fare fronte al lavoro esecutivo. Il barone Eberhard von Bodenhausen – del comitato editoriale di Pan, la rivista di cui Meier-Graefe era direttore – e il pittore berlinese Curt Herrmann, decisero di investire i propri capitali, consentendo di allestire nel sobborgo di Ixelles a Bruxelles moderni laboratori per la produzione di mobili, lampadari e altri arredi. La nuova attività e le relazioni strette con varie Maison d’Art di Parigi, Berlino e L’Aia, permisero a van de Velde di esporre e vendere i propri prodotti e di accettare numerose commissioni di arredi, ma anche di tessuti, gioielli e copertine di libri. Prova ne sia che la direzione della Secessione di Monaco gli mise a disposizione due sale da arredare completamente. Questo dette all’osannato artista l’opportunità di avere il suo primo contatto con amici d’arte nel Sud della Germania. Una opportunità eccezionale, perché all’epoca Monaco, come s’è detto, era un centro artistico molto apprezzato in tutta Europa. Né Dresda, né Düsseldorf, per non parlare di Berlino, potevano competere con Monaco.

Annuncio della ‘Société van de Velde’ in ‘Arte decorativa’, 1898

Il segreto di van de Velde era la continua meticolosità: «Per avere un’idea della risposta che aveva generato la mia partecipazione al dipartimento di arti e mestieri della Secessione del 1898, mi sono mescolato alla folla nell’Hofbräuhaus dopo l’apertura. Mi resi conto di aver combattuto una battaglia, un’altra battaglia dopo le battaglie di Parigi e Dresda. Il pubblico aveva ricevuto uno shock». Tuttavia, a Monaco le parole taglienti che aveva usato Edmond de Goncourt non furono affatto pronunciate, non ci fu alcuna rivolta come a Parigi, anzi non ci fu proprio nessuna reazione improvvisa. Ciò che faceva piuttosto impressione era l’apatia dei visitatori, ai quali senz’altro piaceva parlare d’arte, ma senza provare emozioni. Ne discutevano in birreria. «A Monaco la gente amava l’arte come la birra», ironizzava l’architetto. Davanti ad un boccale s’intrattenevano conversazioni piacevoli con rinomati pittori o scultori, con drammaturghi, attori, cantanti o compositori. Letteratura e poesia, invece, erano di casa nei caffè.

Elisabeth Förster-Nietzsche, sulla scrivania copertine di libri di Henry van de Velde

Alla luce dei fatti, si può dire che finalmente van de Velde aveva quadrato il cerchio della sua professione. Se a Parigi l’intellighenzia lo snobbava, in Germania il suo lavoro di designer divenne noto attraverso articoli su periodici d’arredamento come Innen-Dekoration, rivista illustrata di arti e mestieri per la decorazione d’interni. Nel 1899 si lasciò “rapire” dalla Germania e decise di stabilirsi a Weimar, in una casa in Cranachstrasse, nella zona residenziale di Silberblick, a poche centinaia di metri dalla villa di Elisabeth Förster-Nietzsche, sorella del suo filosofo più amato. «Ricordo gli ultimi tre anni del XIX secolo come un periodo di eterna felicità, come una sola primavera o un’estate luminosa, con aiuole meravigliosamente fiorite, che mia moglie accudiva con amore, quando non si dedicava alla nostra piccola Nele o ad altri lavoretti di famiglia. La vedo ancora nei suoi bellissimi vestiti da giardino fatti di rari tessuti esotici, che lei stessa aveva realizzato con i miei disegni ideati per lei».

Maria Sèthe, moglie di Henry van de Velde, con la loro piccola Nele nel giardino della casa Bloemenwerf

Maria arredò anche il nuovo appartamento con i piccoli mobili trasferiti da casa Bloemenwerf. Van de Velde, invece, su mandato del giovane Granduca Wilhelm Ernst, come consulente artistico si dedicò a infondere la “cultura del prodotto” alle imprese artigiane e industriali del Paese. Continuò anche il suo lavoro educativo, alla Scuola di Arti applicate granducale sassone (Grossherzoglich-Sächsische Kunstgewerbeschule Weimar) da lui stesso fondata nel 1908 e inizialmente sostenuta dal Granduca per poi passare allo Stato. «Ho chiamato questo istituto “Seminario di arti e mestieri” perché ero convinto di poter raccogliere e distribuire lì i semi, che poi sarebbero germogliati».

Scuola d’Arte di Weimar, 1904, progettata da Henry van de Velde

Van de Velde fu il direttore della Scuola fino alla chiusura, nel 1915, anno in cui pur in ottimi rapporti dovette lasciare la Germania per via della guerra, in quanto belga. Suggerì che l’architetto Walter Gropius gli succedesse. Torneremo a parlarne, perché dopo il 1919 la Scuola di Arti e Mestieri si fuse con l’Accademia d’Arte di Weimar, per dare vita al celebrato Bauhaus. In qualche modo si concretizzavano le parole con cui si era chiuso il primo numero de L’art décoratif del 1898, interamente dedicato alla sua figura e alla sua opera: «Seguiranno altri atelier di tessitura, ricamo e altre industrie domestiche, dove la macchina prenderà la sua indispensabile parte al lavoro. Il senso meccanico penetra oggi in tutte le opere di Van de Velde e garantisce che nelle sue mani l’arte non rimarrà, come avviene oggi, a beneficio di un piccolo numero di persone di buon gusto, ma che penetrerà fra la moltitudine, diffondendo verità e bellezza. Allora si realizzerà l’ideale sociale di Van de Velde, davanti al quale, secondo le sue stesse parole, un uomo vale tanto di più se il suo lavoro porta frutti o benefici a tanti altri di più».

Henry van de Velde nel 1904

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Henry van de Velde – Ogni teoria che sosteneva diventava per lui una missione

di Sergio Bertolami

23 – Primi passi verso arti applicate ed ornamento.

Chi pensa sinceramente che le grandi opere raffigurate sui libri di storia dell’arte siano state senza contraccolpi o reazioni, non ha idea della realtà dei fatti. Persino l’arte floreale ebbe i suoi sussulti. Bing e il suo Salon dell’Art Nouveau, ad esempio, per quanto si possa pensare il contrario, furono derisi. La mostra di inaugurazione fu considerata uno scandalo. L’apertura avvenne negli ultimi giorni di dicembre del 1895. Fece scalpore, non solo sui giornali che recensirono l’avvenimento, ma anche tra la moltitudine elegante che affollò le sale espositive. Era presente la crema della società parigina: personaggi famosi dell’Académie Française, artisti ed eminenti studiosi, esteti e critici d’arte. Da subito si levò un borbottio generale di ostilità e indignazione. All’esterno del negozio si formarono gruppi di protesta che attorniavano le personalità più famose: Edmond de Goncourt che esprimeva il suo disgusto, Auguste Rodin che lo sosteneva, pronunciando imprecazioni contro Meier-Graefe colpevole di avere convinto il raffinato mercante a rifiutare la tradizione francese per dare spazio ad un orribile internazionalismo. «Il tuo van de Velde – esclamò eccitato fra gli applausi della folla rivolgendosi a Bing – il tuo van de Velde è un barbaro!». Lo abbiamo incontrato di sfuggita parecchie volte, Henry van de Velde, in queste pagine sull’arte del Novecento. All’epoca degli eventi contava 32 anni e fu proprio lui a raccontarli nel libro uscito postumo in cui narra la storia della sua vita (Geschichte meines Lebens, 1962). «Credo che si debba essere autodidatti per produrre forme come un “barbaro”. Bisogna attingere a fonti che non siano state contaminate dagli stili successivi al Rinascimento italiano in Francia, Paesi Bassi e altre nazioni civilizzate, o dall’insegnamento accademico ufficiale». Idee chiarissime, in linea con i tempi, per contrastare le espressioni concitate di Rodin. Barbaro van de Velde? Ma lo conosceva bene, Rodin? Conosceva questo colto pittore che amava leggere libri o romanzi sociologici di tendenza sociale: le opere di Zola, che gli rivelavano la miseria degli operai e dei contadini; le opere di Nietzsche, come Zarathustra che a suo dire lo «nutriva meglio del cibo vero». In quelle pagine stava cercando la sua nuova strada artistica. Da studente, diceva di avere dipinto con la naturalezza di un «uccello che canta», e usava quest’espressione del suo amico Camille Pissarro. Poi sentì di doversi liberare di quanto appreso prima all’Accademia di Anversa, poi nello studio Verlat e con Carolus-Duran. Doveva scoprire il vero significato dell’impressionismo, e delle correnti che da questo sembravano prendere avvio.

Henry van de Velde nel 1897

Al quarto salone dei Vingt (nel 1887), era rimasto profondamente scosso dalla Dimanche de la grande Jatte di Seurat. «Ci è voluto del tempo perché il pubblico e i critici specializzati riconoscessero che il neoimpressionismo era una rottura». La nuova corrente scaturiva dalla Société des Indépendants nel mettere in pratica la Teoria scientifica dei colori di Chevreul e Rood. Paul Signac spiegava la teoria in D’eugène Delacroix au néo-impressionnisme. Van de Velde non dimenticherà mai in vita sua lo “shock” che gli avevano provocato le prime impressioni dell’innovativa tecnica pittorica divisionista. Seurat ci lavorava fino a tarda notte con uno sforzo sovrumano. Fu nell’autunno del 1888 che van de Velde conobbe Rodin e Georges Lemmen, nominati insieme a lui quali nuovi membri dei Vingt. All’epoca, Madeleine Maus, coscienziosa cronista della storia dei Vingt, commentava: «Van de Velde ama essere attivo, scrivere, parlare, convincere. Un tono serio, inquietante e caldo gli torna utile. È un teorico per natura, e questo tratto particolare del suo essere fa sì che ogni teoria che sostiene diventi una missione per lui». Da quando era entrato nel gruppo dei Vingt poteva partecipare alle serate che Edmond Picard teneva nei mesi invernali nella sua casa di Boulevard de la Toison d’Or a Bruxelles. Serate vivaci e brillanti. Qui, come mai prima d’allora, fra gli ospiti si potevano incontrare famosi professionisti, i principali pittori e scultori, gli scrittori più moderni, l’élite dei politici belgi. «James Ensor, il più chiacchierato e il più talentuoso dei Vingt – annotava van de Velde – è stato visto parlare con il ministro delle Belle Arti, Le Jeune».

Lettera di Octave Maus che annuncia la nomina di Van Velde a membro dei Vingt

Leggeva libri e riviste, che si ammucchiavano nella sua stanza. Più che la pittura in senso stretto, van de Velde ricercava una nuova tecnica, un carattere artistico che lo facesse godere delle gioie che solo il colore e la linea gli davano. «La calligrafia e la tecnica delle xilografie giapponesi, rivelazione per noi giovani artisti in quegli anni, mi sembravano offrire i presupposti per ritrarre in modo semplice i più poveri tra i poveri. Ma i pochi tentativi di xilografia che feci all’epoca erano ovviamente molto lontani dai capolavori di Hiroshige o di Utamaro. E anche con la mia esperienza con i colori secchi e “piatti”, posizionati uno accanto all’altro e uno sopra l’altro, non ho raggiunto il mio obiettivo. Con il minimo ritocco, i colori inevitabilmente si sgretolavano. C’era un solo modo per continuare: sostituire il colore con stoffe colorate, cioè con stoffe tagliate di diversi colori». Dopo il 1891 i primi prodotti esotici comparvero nelle vetrine dei negozi della Compagnie Japonaise di Bruxelles, che l’azienda Liberty di Londra aveva esportato dall’Inghilterra nel continente. La folla si accalcava sul marciapiede, davanti alle vetrine, per ammirare mobili ricoperti di lacca verde vivo o rosso, ceramiche smaglianti, vetri iridescenti. «Godevamo di queste cose come una specie di primavera che irrompeva nelle nostre vite, nella noia grigia dei nostri soggiorni con i loro mobili pesanti e logori che soffocavano ogni serenità, con tutti gli stupidi oggetti impolverati che vi si aggiravano furtivamente». Parallelamente, l’associazione dei Vingt presentava al Salon i primi artisti interessati alle arti applicate: il pubblicitario Jules Chéret con i suoi manifesti, l’illustratore Walter Crane con i suoi libri disegnati per i bambini, il ceramista Willy Finch con i suoi piatti decorati. Erano considerati come dei disertori, che voltavano le spalle alle “arti”. Poteva sussistere ancora una distinzione tra belle arti e arte applicata?

Théo van Rysselberghe, Maria Sèthe all’Harmonium, 1891, Museo Reale di Belle Arti di Anversa

Van de Velde trascorse l’inverno del 1892/93 impegnato in un lavoro intenso, quasi monastico. Aveva elaborato un bozzetto e aveva deciso i dettagli dei tessuti e dei fili di seta con i quali realizzarlo. Per la verità era più un arazzo che una broderie (un ricamo). Dall’esperienza comprese di non potere esprimere la sua visione artistica senza ricorrere all’abilità di un artigiano. Trovò in sua zia una ricamatrice esperta, quanto riluttante. L’anziana signora non poteva capire le teorie scientifiche di Chevreul e le leggi dei colori complementari. «Durante le lunghe settimane di lavoro sull’arazzo, la mia mente vagava in lungo e in largo e mi chiedevo dove mi avrebbe condotto il destino». Il lavoro fu presentato al decimo salone dei Vingt del 1893, l’ultimo realizzato da quella famosa associazione. Conclusa l’esposizione, i membri  e i loro amici si riunirono in banchetto prima di sciogliersi. «Era l’unico modo per liberarsi dalle forze frenanti che erano emerse fra loro», commentò van de Velde. Ma un altro evento contribuì alla trasformazione della professione del giovane artista: l’incontro con Maria Sèthe che presto sarebbe diventata sua moglie. A lei, più che ai suoi amici pittori, riusciva a spiegare il dibattito interiore sul suo essere artista controcorrente, a delineare le grandi figure di John Ruskin e William Morris, a parlare delle opere degli anarchici Bakunin, Kropotkin ed Elisée Reclus. Pur di propugnare «il ritorno della bellezza sulla terra e l’alba di un’era di giustizia sociale e dignità umana», si sentiva pronto a sopportare ogni sacrificio, ogni povertà, se la lotta lo avesse richiesto. Avvertì di avere una “Missione Artistica” da perseguire. Sulla rivista di Bruxelles L’Art Moderne esponeva le sue critiche in difesa delle arti e dei mestieri dall’ingiustificato disprezzo. Maria Sèthe, a Londra, dove soggiornò per vari mesi, raccolse per lui una consistente documentazione sulla rinascita dell’artigianato e sui risultati delle attività di Ruskin e Morris. «Ero particolarmente interessato a campioni di tessuti e carte da parati, cataloghi e riproduzioni di ogni genere di oggetti provenienti dal negozio di Liberty, dalla boutique di William Morris, e dalle varie mostre delle Arts and Crafts Guilds». Le letture di riviste d’arte nelle Biblioteca Nazionale di Bruxelles e di Anversa si fecero più frequenti. Col sostegno del presidente della sezione artistica del consiglio comunale di Anversa, de Winter, componente del consiglio dell’Accademia, nell’ottobre 1893 iniziò un corso per una ventina di studenti, sempre più interessati alle sue lezioni. Lui in verità le chiamava “conversazioni”. Spiegò loro le teorie di Ruskin e Morris e le creazioni di quest’ultimo nel campo degli arazzi, delle vetrate, della carta da parati e dei tessuti per tappezzeria. Ma con maggiore empatia rispetto ai maestri inglesi, nel corso delle sue lezioni, evidenziava come fosse «sbagliato incolpare la macchina per le bruttezze. Era giusto, piuttosto, denunciare la bassa avidità di denaro degli industriali, che grazie alla macchina sono stati messi in grado di moltiplicare gli orrori precedentemente fatti a mano e di inondare con questi orrori i mercati mondiali […] Al contrario: eravamo dell’opinione che la creazione dei modelli e la scelta dei materiali, nel processo di fabbricazione industriale, dovesse essere affidata agli artisti». Ma presto si rese conto che, per ottenere risultati fruttuosi, sarebbe stato necessario un lavoro pratico, che permettesse di creare nuove forme sulla base di nuovi motivi.

Carta da parati Dahlia, realizzata da Maria e Henry van de Velde intorno al 1894
e utilizzata nel vestibolo (© Nordenfjeldske Kunstindustrimuseum, Trondheim, NKIM Kat. 9297)

Chi non ha mai svolto un lavoro di ricerca non può comprendere, se non larvatamente, l’emozione che si prova a percorrere sentieri solo intimamente avvertiti e via via materializzati come per incanto. Van de Velde provò un’emozione del genere quando, avendo programmato qualcosa di speciale per la sua luna di miele, a maggio del 1894, riuscì ad avere una lettera di presentazione per la vedova di Théo van Gogh, che viveva nella sua casa di Bussum, nell’Olanda Settentrionale, e dove conservava tutti i quadri e i disegni di Vincent che Théo aveva raccolto. Gentilmente, senza molte parole, la signora fece accomodare la coppia di giovani sposi in soffitta. «Tutti i quadri – quasi tutta l’opera di Vincent – erano senza cornice con il lato dipinto del quadro contro le pareti. Cartelle spesse con centinaia di disegni giacevano sui tavoli […] Un’eccitazione indescrivibile e quasi timida ci ha colto, di trovarci, così all’improvviso e così direttamente, davanti alle opere di uno dei più grandi geni della storia della pittura». Van de Velde restituirà, nei lavori al tratto di quegli anni, l’inquietante incanto provato nell’aprire le cartelle dei disegni «ricoperti da un groviglio di linee di gesso o inchiostro cinese». Immagini che il giovane artista si porterà negli occhi, nella casa dei suoceri a Uccle, dove lavorerà ai suoi primi esperimenti di arti applicate, in due grandi stanze appositamente ammobiliate per lui e la moglie, che lo affiancava nella progettazione. Sulle pareti, la prima carta da parati disegnata insieme, col motivo Dahlia. L’architetto Victor Horta, su indicazione di un amico comune, lo andò a trovare alla ricerca di idee per la carta da parati, le tende e i corpi illuminanti da usare per la casa Tassel in Rue de Turin, desideroso di conoscere i prodotti che soddisfacevano le nuove concezioni decorative.

Henry van de Velde, Casa “Bloemenwerf”, Uccle, 1895/96

In quei giorni, van de Velde era attratto da una idea: si era presentata l’opportunità di acquistare un terreno di fronte a quello di sua suocera e già pensava di costruirci la propria abitazione. «Mi sono seduto al mio grande tavolo da lavoro nel nostro studio e ho iniziato a lavorare ai progetti per la casa Bloemenwerf». All’epoca, per i diplomati nelle Accademie di Belle Arti, le leggi non prevedevano studi tecnici specifici per indirizzarsi all’architettura. «A quel tempo non sapevo molto delle esigenze che mi imponeva la costruzione di una abitazione, e non avevo mai pensato a cosa occorresse per arredarla. Mi trovai improvvisamente di fronte a domande che richiedevano decisioni rapide». Il capomastro, al momento di consegnare i preventivi dei lavori, non mancò di sottolineare che la casa progettata da van de Velde sarebbe stata oggetto di severe critiche, che avrebbero potuto mettere a repentaglio la reputazione della sua stessa impresa di costruzione. Nonostante ciò, l’inesperienza tecnica del giovane, la volontà di rompere con l’imitazione degli stili storici e con le mode architettoniche del XIX secolo, furono la vera fortuna di questa villa, considerata già dal suo esordio quale vera e propria pietra miliare dell’Art Nouveau. «Io stesso ero pieno di una passione irresistibile. Non mi è bastato abbozzare la casa, ho disegnato tutto ciò che apparteneva agli arredi e alle decorazioni, tranne gli impianti idraulici, di riscaldamento e altri componenti industriali». L’ideale della Gesamtkunstwerk (l’opera d’arte totale) aveva talmente pervaso l’entusiasta van de Velde da fargli progettare ogni elemento architettonico e ogni pezzo d’arredo. Arrivò a realizzare persino stoviglie e posate, ma dovette aspettare che si trovassero i laboratori per fabbricarli. Gli amici divertiti volevano che disegnasse i gioielli per sua moglie e lui, per tutta risposta, ne ideò persino gli abiti.

Maria Sèthe in cucina (piano terra)
Henry van de Velde davanti al camino della sala da pranzo
Lo studio al primo piano

Nella primavera del 1896 la casa fu terminata e la giovane coppia vi si trasferì. La chiamarono Bloemenwerf (cortile fiorito) in ricordo di una delle belle e umili case di campagna con quel nome che avevano trovato durante la loro luna di miele sui canali tra Utrecht e Amsterdam. Quella casa divenne il paradigma dell’architettura Art Nouveau. È mirabile leggere le parole, espresse con indescrivibile candore, da chi ha ideato questo progetto “rivoluzionario”: «Non ero gravato né da preconcetti né da regole dotte. Ero ingenuo ai problemi e nessuna soluzione mi sembrava troppo audace o troppo sconosciuta. Né il livellamento dei terreni, né le planimetrie, le sezioni o i prospetti, mi hanno mai preoccupato. Quando ho deciso di realizzare i progetti per la nostra casa, non avevo idea dell’architettura. Ero totalmente autodidatta […] Oggi difficilmente sembra credibile che un edificio così semplice, modesto, sensato, come questa casa di campagna, possa suscitare tanto entusiasmo tra il pubblico e tanto stimolo tra gli architetti. Ma forse ciò che era strano era la semplicità, il pudore e la ragione, in un’epoca in cui l’architettura borghese e monumentale rappresentava esattamente il contrario e il nonsenso era diventato il criterio della bellezza. Il compiacimento e l’ostentazione avevano distorto la comprensione delle cose semplici della vita».

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Ridisegnare la casa: i negozi di Bing e Meier-Graefe in omaggio alla donna emancipata

di Sergio Bertolami

22 – La Maison de l’Art Nouveau e La Maison Moderne

Nel loro Journal (1851-1870) i fratelli Edmond e Jules de Goncourt, avevano annotato più volte notizie riguardanti le proprie collezioni di stampe orientali. Vi si legge: «Tutto ciò che [i giapponesi] fanno è prendere da ciò che osservano. Loro rappresentano quanto vedono: l’effetto incredibile del cielo, le strisce su di un fungo, la trasparenza di una medusa». Trentacinque anni più tardi l’idea si conservava ancora intatta. Scriveva Peter Altemberger su Ver Sacrum: «I giapponesi dipingono un ramo fiorito ed è tutta la primavera. Da noi si dipinge tutta la primavera e ne esce appena un ramo fiorito». L’influenza esotica aveva fortemente contrassegnato le creazioni delle industrie artistiche francesi: bronzi, ceramiche, cristalli, mobili, tessuti, carte da parati. Persino le sculture rispecchiavano il nuovo gusto. L’accademico Alexandre Falguière aveva, infatti, rappresentato L’Asia in stile giapponese. Era una delle sei statue realizzate per la serie I sei Continenti all’Esposizione Universale di Parigi del 1878. Tutti i grandi atelier artistici avevano preso in prestito dai giapponesi i motivi esotici: nelle opere di alta oreficeria di Bouilhet o di Christofle, nei gioielli di lusso di Falize, nei raffinati cristalli di Baccarat. Questo esotismo di espandeva anche fuori di Francia: negli Stati Uniti a New York con i gioielli di Tiffany, in Inghilterra a Worcester con la porcellana “bone china ”, in Belgio a La Louvière con le ceramiche Boch Frères.

Panorama dell’esposizione universale del 1878

Bing fece di meglio. Basta riassumere brevemente il suo percorso, per rendersi conto. Aveva preso il controllo degli affari parigini di famiglia subito dopo la guerra franco-prussiana e per rinsaldare la posizione aveva anche ottenuto la cittadinanza francese nel 1876. Il suo primo contatto con l’arte giapponese come collezionista si può datare intorno al 1860; la commercializzazione vera e propria fu avviata negli anni Settanta dell’Ottocento; l’apertura del negozio in rue Chauchut coincise con l’Esposizione Internazionale di Parigi del 1878; il primo viaggio in Giappone nel 1880 gli permise di acquisire arte giapponese, sia antica che contemporanea. Sappiamo bene che alcuni commercianti – come Madame de Soye per La Porte Chinoise – si accontentavano di scegliere la propria merce orientale fra quanto regolarmente era scaricato nei porti francesi. Altri, invece, come i fratelli Sichel (Auguste, Philippe e Otto), ad esempio, passavano diversi mesi nel lontano arcipelago per stringere contratti d’affari ed ottenere prodotti migliori e più vari. Ma nessuno come Siegfried Bing era riuscito a stabilire rapporti commerciali con i collezionisti privati giapponesi di antichità, le cui aziende erano ancora fuori dalla portata degli stranieri. Per questo aprì uffici a Yokohama e Kobe, e ciò gli permise di espandere le proprie vendite d’arte giapponese anche ai musei, in Francia e all’estero. Questi rapporti diretti permisero di pubblicare fra maggio 1888 ed aprile 1891 un elegante mensilmente in tre lingue, Le Japon artistique, sottotitolato Document d’art et d’industrie.

Le Japon artistique

A chi si rivolgeva questo nuovo periodico? È Bing stesso a precisarlo: «Si rivolge in particolare alle tante persone che, a qualsiasi titolo, sono interessate al futuro delle nostre arti industriali, in particolare a voi, modesti lavoratori o grandi manifatturieri, che avete un ruolo attivo in questa parte della nostra forza produttiva. Nelle nuove formule artistiche che ci sono arrivate dalla costa più estrema dell’Estremo Oriente, dobbiamo cercare qualcosa di più di un piacere platonico [che tanto interessa] i nostri dilettanti dall’umore contemplativo. Vi troveremo esempi degni a tutti gli effetti di essere seguiti, non certo per scuotere le basi del nostro vecchio edificio estetico, ma per arrivare ad aggiungere una forza in più a tutte quelle di cui per secoli ci siamo appropriati per sostenere il nostro genio nazionale». Tuttavia, occorreva esprimere una predilezione tra i tanti modelli che si erano fatti strada negli ultimi anni in Europa: «Tra questi modelli, dovremo ora scegliere quelli che, con il sapore della terra, si uniscono anche alla bellezza eclettica che non ha patria; un’attenzione particolare dovrebbe essere data ai soggetti che si adatteranno senza sforzo alle esigenze e ai costumi della nostra cultura occidentale, evitando tutto ciò che servirebbe semplicemente a provocare peccati ciechi o pastiche umilianti […] I nostri produttori sono troppo saggi per lasciare inutilizzata una tale abbondanza di risorse preziose, e tra disegnatori industriali e illustratori di libri, tra architetti e decoratori, produttori di carta da parati o fantasia, tra stampatori di tessuti e tessitori di seta, ceramisti, bronzieri e orafi, come finalmente tra tutta la folla di operai impiegati in un centinaio di piccole industrie, non ce n’è uno che non troverà proficua consultazione da una raccolta di documenti che riassume il lavoro di diverse generazioni di valorosi artisti». Il ragionamento di Bing si innestava sensatamente nell’arte del suo tempo: se l’eclettismo aveva carattere universale, perché «la beauté éclectique n’a pas de patrie», allora anche dalla cultura giapponese si potevano cogliere i frutti giusti.

Manifesto della mostra del 1899 curata da Bing alla Grafton Gallery di Londra

L’appello di Bing non rimase inascoltato. Molte delle grandi Maison dell’epoca si rivolsero al naturalismo del “filo d’erba” d’ispirazione giapponese, tralasciando le artificiose composizioni floreali di bouquet e ghirlande in Stile secondo Impero. Ecco, dunque, le nuove produzioni in vetro di Gallé o Lalique, i gioielli di Henri Vever, le porcellane di Limoges di Robert Haviland o quelle di Sèvres, i vasi di Tiffany a New York. Ma in quell’appello Bing stava delineando anche il suo futuro impegno personale. Poteva, infatti, spingere al massimo i propri interessi, verso una nuova visione dell’arte, facendo affidamento su di una straordinaria rete di colleghi ed amici, giovani e anziani, francesi, belgi, tedeschi. Il viaggio di Bing a Bruxelles nel 1893, in compagnia dello scrittore e critico Meier-Graefe, per incontrare l’artista van de Velde permise di definire i presupposti per la creazione della nuova galleria Art Nouveau. Il viaggio negli Stati Uniti nel 1894, dove conobbe Louis Comfort Tiffany, confermò che il sogno fino ad allora serbato doveva essere intrapreso. Meier-Graefe apparteneva ad una generazione più giovane della sua, per questo agì come un interprete delle nuove idee, quando insieme decisero che per raggiungere un vasto pubblico occorreva modernizzare gli interni delle case contemporanee, rendendole pratiche, quanto esteticamente gradevoli.

Maison Bing, di proprietà di Siegfried Bing, al 22 di rue de Provence, all’angolo di rue Chauchat, costruito nel 1895 da Louis Bonnier e distrutto nel 1922.

Il progetto si concretizzò nel 1895, allestendo La Maison de l’Art nouveau, al n. 22 di rue de Provence, appena voltato l’angolo di rue Chauchat dove al n.19 riscuoteva successo con la sua arte giapponese. In occasione del primo Salon dell’Art Nouveau, nel 1896, Meier-Graefe pubblicò non meno di tre articoli per la rivista Das Atelier su ciò che visse in prima persona nella nuova galleria d’arte. Bing aveva invitato artisti di tutta Europa a presentare opere, commissionò un manifesto all’artista svizzero Félix Vallotton e chiese all’artista belga Georges Lemmen di realizzare una stampa per la quale lui stesso chiarì quali fossero i suoi obiettivi estetici: «L’Art Nouveau si sforzerà di eliminare ciò che è brutto e pretenzioso in tutte le cose che attualmente ci circondano per donare il gusto perfetto, il fascino e la bellezza naturale, anche agli oggetti utilitari meno importanti».

Pubblicità pubblicata nel 1895 sulla rivista d’arte Pan
Ingresso alla Maison Art Nouveau al 22 rue de Provence a Parigi nel 1895.

Henry van de Velde progettò la maggior parte degli interni del negozio, mentre Tiffany & Co. spedì i suoi vetri policromi per le finestre e i pannelli decorativi. La galleria di Bing presentava intere stanze allestite nel nuovo stile Art Nouveau ed esponeva tessuti disegnati da William Morris e mobili di Georges de Feure. Nulla fu lasciato al caso, rinnovando il preesistente edificio e l’azienda. Meier-Graefe su Das Atelier, commentò le varie novità, in particolare l’importanza delle innovazioni che caratterizzavano le stanze. Il negozio esponeva non più singoli oggetti d’arte, ma varie tipologie d’interni, che Bing aveva commissionato all’architetto belga. Sottolineò l’impatto estetico della sala da pranzo e delle stanze più piccole posizionate su entrambi i lati. Un elogio particolare lo riservò ai vetri di Tiffany, che a suo avviso avevano superato il Sol Levante: «Qui, il Giappone è per la prima volta sconfitto, tutte le sue ceramiche non hanno minimamente questa meravigliosa, chiara magia di colore […] qui il colore viene fuori puro e con la massima audacia». Con queste parole Meier-Graefe esaltava il ruolo di Bing quale mecenate delle nuove arti. Questa era ormai la nuova linea d’azione, perché agli inizi del 1898, Bing prese seriamente in considerazione di aprire, a supporto del negozio, anche un suo atelier, come aveva fatto Louis Comfort Tiffany in America e molti altri che lavoravano in Europa. Bing decise di assumere validi progettisti ed artigiani che sapevano realizzare progetti conformi alla sua visione, in modo da discostarsi dal semplice ruolo di importatore, di commerciante, di promotore di opere create da artisti di vari paesi e di varie convinzioni, per arrivare a definire una concezione unitaria, totale, che si accordasse alle proprie idee riguardo al design moderno della casa. Bing lanciò i suoi atelier alla fine del 1898.

Planimetria della Maison Bing con i due ingressi da rue Chauchat e da rue de Provence

La data precisa d’inizio dei laboratori Art Nouveau è difficile da stabilire. Gabriel P. Weisberg (Redesigning The home, Bing’s art nouveau workshops) ci informa che nel 1897 Bing stava predisponendo cornici, specchi e vari altri oggetti utili per la casa, facendo rilevare che i disegni erano in fase di completamento nei propri atelier. In altri documenti comparivano richieste per forniture di tappeti, carta da parati, compresa una serie coordinata di mobili disegnata da Henry van de Velde. Alcuni di questi primi modelli sono documentati in un album fotografico che Marcel Bing (suo figlio) ha donato al Musée des Arts décoratifs di Parigi, nel 1908. Per ospitare i laboratori, Siegfried Bing ottenne di sopraelevare la preesistente costruzione, e una volta conclusi i lavori non perse tempo nel pubblicizzare le manifatture su La Revue Illustrée. Diverse foto e grafici nell’articolo mostrano gruppi di designer, ebanisti e gioiellieri, concentrati nel lavoro. Tuttavia, come indicato dalle planimetrie del terzo piano, nonostante la ristrutturazione, le officine non erano poi così grandi da ospitare troppi artigiani. Quindi, intorno al 1899-1900, per fare fronte alla ricchezza di idee dei giovani progettisti, Bing iniziò ad affidare a sempre più aziende esterne le realizzazioni.

Atelier di progettazione

Con i suoi laboratori d’arte bene organizzati e con gli accordi stretti con le principali aziende produttrici di tessuti e ceramiche, Bing e l’amico Meier-Graefe, nel 1899 si resero presto conto di avere aperto un nuovo mercato. Anche il negozio di Meier Graefe, La Maison Moderne, sempre a Parigi, fu aperto nel 1899, a settembre. Rispondeva all’esigenza di soddisfare una clientela più giovane rispetto a quella di Bing. Ambedue erano contrari agli interni tradizionali strapieni di cianfrusaglie. Annotava Meier-Graefe: «Il gusto moderno odia tutto ciò che sembra bric-à-brac, che soffoca in questo interminabile bric-à-brac, che ha caratterizzato le case parigine durante il Secondo Impero […] Il gusto moderno guarda prima di tutto allo spazio; preferisce la luce, l’aria e il colore». Il colore, appunto, era diventato il fattore determinante nella creazione di un senso di unità nella decorazione degli interni. D’altra parte, lo scopo delle case era di viverci, e per questo motivo avrebbero dovevano trasmettere la qualità della presenza artistica. Gli oggetti, utili o decorativi, avrebbero dovuto essere realizzati dalla mano di un artista, non dalla macchina. Né più né meno di quanto avveniva in Giappone, dove l’oggetto più semplice, utilizzato in casa, metteva in mostra qualità artistiche. Era tutto questo una sorta di marketing ante litteram, uno specifico programma propagandistico rivolto alle donne moderne, alla quali era demandata la guida della casa. Ecco perché i manifesti che pubblicizzavano questi due negozi si incentravano su di una nuova figura femminile. Non una donna fatale, ma una donna vestita in modo elegante, moderna, capace di esprimere emancipazione e seduzione nel contempo, una musa ispiratrice delle varie arti innovative come la ceramica, il vetro, i tessuti, i mobili.

Maurice Biais, La Maison Moderne, ca. 1901-02. Manifesto. Parigi, Musée de la Publicité

Quando nel 1900 Bing si trovò a promuovere in modo influente la Maison de l’Art nouveau all’Exposition Universelle all’Esplanade des Invalides, era giunto il momento ineguagliabile per affermare le nuove idee. «Doveva dimostrare visivamente di aver capito che le donne, specialmente le donne alla moda, erano quelle che avrebbero avuto i mezzi per riempire le loro case con i mobili, gli oggetti d’arte, le sculture e i dipinti, che vendeva nella sua galleria. Natura e Giappone, quegli aspetti che Bing aveva utilizzato nelle precedenti campagne pubblicitarie, si combinavano in queste immagini con la nuova donna che era diventata l’icona dell’epoca della Belle Epoque» (Gabriel P. Weisberg).

Pubblicità del negozio di Bing all’Esposizione Universale di Parigi nel 1900

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Con le stampe esotiche artisti e pubblico si appassionano per l’arte giapponese

di Sergio Bertolami

21 – Il Giapponismo nella seconda metà dell’Ottocento.

L’Art Nouveau è sostanzialmente legata alle arti dell’Estremo Oriente, che nella seconda metà dell’Ottocento tornarono ad incidere sulle inclinazioni degli artisti e del pubblico più ampio. Non perché dal secolo XVIII – durante il quale avevano profondamente sedotto le élite – erano state poi sprezzate o disconosciute, ma perché in verità erano ormai del tutto cadute nell’oblio. Quello che però sarà chiamato Giapponismo non è mutuato soltanto da un fatto di gusto estetico, ma ha diretti riscontri politici ed economici. La riscoperta prese avvio, infatti, con la Convenzione di Kanagawa, un trattato di amicizia e pace tra Giappone e Stati Uniti, sottoscritto il 31 marzo 1854. Un trattato che mise fine a due secoli di isolazionismo e alla nascita dell’Impero nipponico. Dal 1641, infatti, solo le navi cinesi e quelle olandesi della Compagnia delle Indie orientali avevano diritto di approdare in un unico porto giapponese, Nagasaki. Per la precisione a Dejima (letteralmente isola d’uscita), una piccola piattaforma artificiale a ventaglio, appositamente costruita all’ingresso della città portuale. Fino ad allora solo pochi prodotti, nonostante i divieti di esportazione, riuscivano a filtrare in Europa. I servizi in porcellana o gli opuscoli illustrati e le xilografie giapponesi, per il loro costo eccessivo, erano acquistabili soltanto dalla ristretta cerchia aristocratica. Ora, invece, il trattato rompeva, a tutti gli effetti, le maglie di un ferreo isolamento che durava da duecento anni. Per la verità, il trattato aveva per oggetto il salvataggio marittimo e non il libero scambio commerciale. Era stato imposto al Giappone sotto la minaccia di cannoneggiamenti da parte della Marina statunitense, in seguito ai maltrattamenti subiti dagli equipaggi balenieri americani naufragati al largo della costa nipponica. Vi si specificava chiaramente: «Il porto di Simoda [Yedo], nel principato di Idzu, e il porto di Hakodade, nel principato di Matsmai [Hokkaido], sono concessi dai giapponesi come porti per l’accoglienza delle navi americane, dove potranno essere rifornite con legna, acqua, provviste, carbone e altri articoli di loro necessità, da richiedere secondo le disponibilità giapponesi». Per assolvere ai compiti di accoglienza dei naufraghi – salvati lungo le coste e successivamente trasferiti nei porti di Simoda e di Hakodade – furono nominati, dal Governo degli Stati Uniti, consoli ed agenti. Per quella che fu considerata un’ingerenza esterna, il trattato divenne causa di gravi conflitti politici interni. Ne conseguì una guerra civile, risolta soltanto nel 1869 con la restaurazione del potere imperiale Meiji e la fine dello shogunato Tokugawa. L’accordo fu seguito da analoghe convenzioni, questa volta commerciali, con gli Stati Uniti ed anche con Inghilterra, Francia, Russia e naturalmente Olanda. Volendo richiamare un fatto già detto in precedenza, ecco il motivo per cui nel 1870 Martin Michael Bair, cognato di Siegfried Bing, fu nominato console nella nuova capitale, che da Edo (entrata della baia) trasformò il nome in Tokyo (capitale d’Oriente). La strada della modernizzazione si stava aprendo anche nel lontano arcipelago.

Mappa illustrata di Nagasaki Maruyama Okyo, Nagasaki Museum of History and Culture Collection

Con questo avvio di libero scambio commerciale fra Oriente ed Occidente, manufatti giapponesi cominciarono a circolare in Europa in maniera più cospicua, finendo col comparire persino nelle vetrine e sui banchi dei negozi di curiosità. Le “giapponeserie” si diffusero come nel secolo precedente avevano fatto le “cineserie”. In questo caso la mania per tutto ciò che era insolito e raro, raffinato e suggestivo, iniziò con la raccolta di porcellane, lacche, piccole sculture e bronzi, sete, kimoni, soprattutto stampe Ukiyo-e (immagini del mondo fluttuante) dei grandi maestri Hokusai, Hiroshige, Utamaro, Kunisada, Eisen. Giunsero anche i Mangwa (immagini casuali), album di schizzi a tema. Si racconta che Félix Bracquemond, interessato più che mai alla tecnica dell’incisione, fu forse il primo artista parigino a prendere spunto dall’arte giapponese, riproponendo quelle esotiche figure su di un servizio di porcellana, decorato nel 1867 per Eugene Rousseau. Fu, infatti, nella bottega del suo stampatore, Auguste Delâtre, al 171 di rue Saint-Jacques, che nel 1856 trovò un Mangwa di Katsushika Hokusai. Le sue pagine erano servite casualmente ad avvolgere la spedizione di fragili porcellane. Riproducevano gli schizzi sparsi che il pittore aveva catturato col suo pennello: paesaggi, uccelli, animali, piante ed alberi, scene di vita quotidiana. Il minuscolo fascicolo, che Delâtre aveva ricomposto da quei fogli, produsse un’impressione vivissima in Bracquemond. Riuscì ad acquisirlo soltanto un paio d’anni dopo, grazie ad uno scambio con delle incisioni di Eugène Lavieille che conservava. Bracquemond ne fece quasi un breviario. Portava quel libretto di schizzi in tasca e lo mostrava a tutti, per giudicare dalla sorpresa degli interlocutori l’ammirazione e la curiosità che suscitava.

Hokusai manga vol.15

A giugno del 1862 il pittore si unì con un gruppo di giovani artisti alla Société des aquafortistes, fondata dall’editore Alfred Cadart con la collaborazione dello stesso tipografo Delâtre. L’associazione voleva rinnovare il modo di produrre le incisioni moderne. Sempre nel 1862, si aprì anche La Porte Chinoise al 220 di rue de Rivoli, vicino al Louvre. Una boutique di paccottiglia orientale condotta da Madame De Soye, che fece crescere l’entusiasmo. Qualche nome dei suoi clienti? Whistler e Fantin-Latour, i Goncourts e Baudelaires, Bracquemond e Millet, Manet, Degas, Monet, Zola, Champfleury, e si potrebbe continuare. Baudelaire scriveva a sua madre: «Ho ricevuto un pacco di giapponeserie, le ho condivise con alcuni amici». Un visitatore dello studio di Whistler riferiva ad un amico: «Qui, sono quasi in paradiso. Crederesti di essere stato a Nagasaki o al Palazzo d’Estate, Cina, Giappone, è splendido». L’inglese Dante Gabriel Rossetti, mentre cercava articoli giapponesi a Parigi, venne a sapere che «tutti i costumi erano acquistati da un artista francese, Tissot, che sembra stia facendo tre quadri giapponesi, descritti a me dalla proprietaria del negozio come le tre meraviglie del mondo».

James Tissot, La Japonaise au bain (c.1865 ), Musée de Dijon, Francia. 
 

Il gusto per l’arte giapponese era inizialmente limitato ai circoli ristretti di intenditori, letterati e artisti. Fu l’Esposizione Universale del 1867 a diffondere davvero questa attrazione, dedicando ampi spazi all’Estremo Oriente. Col prorompere del gusto, nacque anche il termine Japonisme, coniato dall’incisore Philippe Burty nel 1873. All’inaugurazione dell’Esposizione, fra le tante cronache, si poteva leggere di tutto. Ad esempio, un pezzo che rendeva noto di un artista della Maison Christofle che aveva avuto l’idea di applicare lo stile di decorazione giapponese ai gioielli di oreficeria, ai flaconi, alle scatole di caramelle. In un altro articolo si leggeva che il gioielliere Martz aveva ideato degli smalti orientali, traendo ispirazione da alcuni album di Hokusai, Toyokuni e Kuniyoshi che si era procurato. Bracquemond, il quale rivendicava il merito di aver “scoperto” il primo libro illustrato proveniente dal Giappone – e non era chiaramente il primo –, fondò “Jinglar” un’associazione che mensilmente si riuniva a cena chez Solon, ovvero dal direttore della Manifattura di Sèvres. Tra i proseliti del nuovo gusto c’erano Zacharie Astruc, Fantin-Latour, Philippe Burty, l’incisore Jacquemard. In questi incontri mangiavano riso con le bacchette; spegnevano i sigari in posacenere orientali; tutto era ispirato al Giappone, compreso il servizio da tavolo inciso da Bracquemond. Jules de Goncourt terminava una lettera a Philippe Burty inneggiando: «Japonaiserie for ever». Dal canto suo anche Edmond de Goncourt, nei suoi scritti, rivendicava per sé e suo fratello il primato di questo interesse verso il Sol Levante. Dal momento che Edmond non visitò mai l’Estremo Oriente, le sue osservazioni evidentemente si basavano sulle opere d’arte che studiava e che raccoglieva in una interessante collezione privata. Poteva pure contare sui giapponesi che incontrava a Parigi. Fra questi, Hayashi Tadamasa, un commerciante che, stabilitosi a Parigi, è oggi riconosciuto come figura importante per l’importazione e diffusione dell’arte e della cultura giapponese in Europa. Nel 1878, in occasione dell’Esposizione Universale di quell’anno, Tadamasa era giunto a Parigi al seguito del mercante e antiquario Kenzaburô Wakaï, per il quale faceva da venditore e interprete. Presentò porcellane i cui prezzi si quadruplicarono in un batter d’occhio.

The Kiryu Kosho Kaisya Standing Industry and Trading Company (1873-1891)

L’allestimento di una fattoria giapponese sembrava essere una delle “meraviglie della mostra” e la Kiryo Kosho Kaisha, rifornì di merci il padiglione giapponese. Le finalità di quella che rappresentava la prima società di produzione e commercio giapponese erano esplicite: «La nostra azienda, Kiriu Kosho Kuwaisha, è stata fondata con lo scopo di incoraggiare le industrie giapponesi e promuoverne la massima perfezione possibile». Tadamasa rimase a Parigi, dapprima per vendere la merce restante alla chiusura dell’Esposizione, ma finì con aprire un negozio e così diventò, con Siegfried Bing, uno dei migliori mercanti d’arte giapponese a Parigi. Da lui acquistavano i fratelli Edmond e Jules de Goncourt, le voci più entusiaste verso il Giapponismo. Non furono probabilmente i primi a comprendere le raffinatezze di quest’arte esotica, ma Edmond – Jules era scomparso nel 1870 – espresse in due pubblicazioni la sua passione: nel 1891, pubblicò la prima monografia storica su Kitagawa Utamaro, seguita nel 1896 da un’altra monografia su Katsushika Hokusai.

Ospiti a una cena annuale della London Japan Society, 1900. Fotografia. (Fonte Japan Society, Londra)
Biglietto d’invito che annuncia una conferenza di Siegfried Bing alla Japan Society di Londra (Fonte Japan Society, Londra)

Bing propose Edmond de Goncourt per l’ingresso alla The Japan Society di Londra, il 10 marzo 1893, anche se, in verità, il loro rapporto era spesso teso, a causa dell’idea di Edmond di ritenersi il principale fautore dell’arte giapponese in Francia, quasi l’esperto assoluto. Si accapigliavano in strenui dibattiti riguardo ad alcuni passi del libro su Hokusai. Fin dall’inizio delle attività di Bing come negoziante d’arte, Goncourt era comunque un suo assiduo frequentatore. Dal momento che Bing ne riconosceva la fama di scrittore, con uno schietto impegno di lunga data riguardo al Giappone, pensò bene di candidarlo come socio della prestigiosa Società londinese.

A sinistra: Hiroshige, Cento vedute di Edo, n. 30, Pruneraie à Kameido (1857), a destra: Van Gogh, Japonerie. Plum Blossoms (1887), Museo Van Gogh, Amsterdam.

Qualche anno fa, lo storico Jean Chesneaux – esperto di Asia orientale – si rammaricava che analogamente al Giappone di oggigiorno che ha preso in prestito le nostre arti meccaniche, la nostra arte militare, le nostre scienze, così gli europei dell’Ottocento ghermivano le arti decorative giapponesi. «Non era più una moda, era un’infatuazione, una follia». Chesneaux, in verità, stigmatizzava soprattutto l’imitazione volgare. Questo perché le opere giapponesi conquistavano anche i dilettanti, si allargavano sempre più nel gusto popolare, inquietando il mondo della cultura. Dal 1878 al 1895 l’ossessione continuò ad espandersi. Tuttavia, fra gli specialisti iniziarono le prime ricerche sistematiche: l’inglese W. Anderson nel 1879 e 1886, Théodore Duret nel 1882, Louis Gonse nel 1883, Madsen nel 1885 e naturalmente Edmond de Goncourt negli anni Novanta. Questo per dire delle pubblicazioni e non dilungarsi sulle mostre. Giova però citarne qualcuna. Nel 1887, una piccola vetrina a Parigi fu dedicata alle sole stampe giapponesi. Al caffè Le Tambourin di avenue de Clichy, la organizzò uno sconosciuto olandese, Vincent Van Gogh, che passò inosservato. Era completamente irretito da quelle stampe, che ne comprò centinaia. In una lettera da Arles del 15 Luglio 1888 Vincent esortava il fratello Théo ad acquistare xilografie nella galleria di Siegfried Bing, con la quale aveva un conto aperto: «Ti prego conserva il deposito di Bing, i vantaggi sono troppo grandi».

Exposition de la Gravure Japonaise (Mostra di stampe giapponesi) di Jules Chéret, Chaix et Malherbe 1890. Dalle collezioni dei musei de Young e Legion of Honor di San Francisco, CA.

Nel 1888 Bing stesso offrì all’ammirazione del pubblico, nel suo negozio, centosessanta pezzi della sua “meravigliosa collezione”. Ma le mostre si ripeterono ancora, perché due anni dopo, una superba retrospettiva storica ebbe luogo addirittura nella sede ufficiale della cultura accademica francese. In tale circostanza, Mary Cassatt, statunitense, scriveva a Berthe Morisot, ambedue pittrici impressioniste: «Devi vedere le stampe giapponesi. Vieni appena puoi all’École des Beaux-Arts». L’ampia presentazione era stata organizzata proprio da Siegfried Bing, e fu particolarmente significativa sia per il numero degli esemplari – vi erano presentate più di 700 stampe – che per la qualità degli espositori. Georges Clemenceau, futuro primo ministro, era tra questi. Nonostante l’impegno culturale, le Japoneries si trovavano ormai dappertutto. Anche nei bazar. La merce scadente aveva invaso i banchi dei grandi magazzini: il Petit Saint-Thomas aveva preso a diffonderla in provincia. Siegfried Bing, da quell’abile uomo di affari qual era, vide il pericolo in tempo. Trasformando La Maison Bing, mise a segno il suo ennesimo successo. La rinnovata galleria d’arte si chiamò L’Art Nouveau.

Il padiglione giapponese Midori no Sato

Poco si sa del primissimo padiglione giapponese fondato in Francia (1886), quello del giardino di Hugues Krafft chiamato Midori no Sato, scomparso pochi decenni fa. Gli scavi effettuati nel sito ci hanno permesso di trovare le fondamenta del padiglione e di tentarne la ricostruzione.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay