Siegfried Bing, il mercante d’arte che sapeva fare rete fra Oriente ed Occidente

di Sergio Bertolami

20 – Il ruolo di Bing a sostegno delle arti applicate

Ho parlato di Arthur Lasenby Liberty e non posso trascurare Siegfried Bing. A cercare due notizie su di lui, troverete che era un mercante di nascita tedesca, un editore ed anche un mecenate. Proveniva da una ricca famiglia ebrea di Amburgo. Suo padre era da principio un decoratore di ceramiche, poi divenne anche produttore. Suo figlio, Marcel Bing, un talentuoso disegnatore di gioielli in stile Art Nouveau. Troverete anche che il grande successo di Bing fu aprire un negozio di artigianato orientale a Parigi alla fine degli anni Settanta del XIX secolo, che trasformò nel 1895, battezzandolo Art Nouveau. Con questo nome identificò una corrente artistica che oggi tutti conoscono. Pochi sanno, però, che dal momento della sua morte, a settembre del 1905, un velo oscurò ciò che era noto a molti fino a quel momento. Si tornò a parlare di lui solo quando negli anni Sessanta del Novecento un rinnovato interesse portò di nuovo all’attenzione le arti decorative e, con queste, soprattutto l’Art Nouveau. Questo protagonista eccellente era talmente uscito di scena, che qualcuno, leggendo “S. Bing”, confuse persino il suo nome di battesimo Siegfried con Samuel. Mi piacerebbe soffermarmi a lungo sulla sua figura; come, ad esempio, avrei preferito non essermi limitato a qualche accenno su Paul Cassirer e suo cugino Bruno Cassirer, i quali come ricorderete promossero, con la propria galleria d’arte e la propria casa editrice, la Secessione di Berlino. Bing, tedesco come loro, mercante come loro, s’interessò a diffondere, invece, la sensibilità per un Oriente fino ad allora sconosciuto nella sua vera essenza. Dette vita alla fine del 1880 a un periodico mensile, Le Japon artistique, e organizzò una serie di mostre sull’arte giapponese, con ceramiche e stampe ukiyo-e. Chi, al suo tempo, parlava di Siegfried Bing lo descriveva come un apprezzato esteta; il suo atteggiamento rifletteva eleganza, cultura, capacità di appassionare ad esotici oggetti di qualità.

Manifesto per la Maison de l’Art Nouveau (museo delle arti decorative, Parigi)

Julius Meier-Graefe, il noto critico tedesco – che quale amichevole concorrente tentò la strada del commercio, aprendo anche lui a Parigi La Maison Moderne, una galleria che esponeva opere Art Nouveau – scriveva di Bing: «Tutti pensavano alla sua figura delicata, con una mente da intellettuale parigino. Parlava e scriveva un francese classico, evitando tutte quelle frasi fiorite da boulevard. Aveva i modi educati di un marchese dei vecchi tempi, che trascorreva i momenti di libertà a caccia di bon mot nella sua biblioteca. Difficilmente gli si sarebbe attribuita l’eccezionale energia di un ricercatore, né tanto meno quella di un commerciante. Eppure, Bing era entrambe le cose. Ecco perché una parte sostanziale dell’inizio della conquista intellettuale del Giappone è dovuta a lui». Bing in verità era un uomo d’affari, ma colto e raffinato come pochi, soave e persuasivo verso i suoi clienti. Aveva compreso come per avere successo occorresse, anziché seguire l’opinione pubblica, allontanarsene quanto più possibile. L’arte giapponese fu lo stimolo creativo, oltre che commerciale, per Bing, ma anche per lo stesso Julius Meier-Graefe oppure – giusto per citarne uno solo – per Henri Vever, il più famoso gioielliere degli inizi del Novecento, che aveva un negozio proprio di fronte a quello di Bing. Utilizzando volantini che invitavano alle mostre, allestendo ambientazioni in stile che esponevano le preziose collezioni, diffondendo cataloghi ricchi di immagini, e tanti altri mezzi promozionali, come le pubbliche conferenze alla Japan Society di Londra di cui era socio, Siegfried Bing rese tangibile ai suoi contemporanei il nuovo gusto estetico che si stava diffondendo in Occidente. All’epoca in cui tutto questo si materializzò Bing aveva pochi concorrenti disposti ad investire la propria reputazione e una considerevole fortuna nella ricerca pioneristica di nuove forme d’arte. A Londra abbiamo seguito le “avventure” commerciali di William Morris o di Arthur Lasenby Liberty, ma fu il negozio di Bing a fare sprizzare il movimento Art Nouveau in ambito internazionale.

Siegfried Bing

Naturalmente – come vale sempre per i visionari e i precursori – l’attività di Bing fu derisa dalla stampa francese, che chiedeva il motivo per cui non esibisse la produzione artistica europea anziché proporre l’arte esotica. Ma Bing era convinto, sapeva cosa fare, giacché nel commercio era cresciuto. Suo padre Jacob era comproprietario, con Samuel Joseph Renner, della Bing Gebrüder, un’azienda fondata ad Amburgo per importare porcellana e vetro francesi e che rimarrà attiva fino al 1888. I soci si erano divise le responsabilità: Renner operava ad Amburgo e Jacob a Parigi, a partire pressappoco dal 1850; per cui ben presto, finiti gli studi, i figli Siegfried, Michael e più tardi Auguste, raggiunsero la famiglia a Parigi ed entrarono in azienda. Nel 1854, Jacob acquistò una modesta manifattura a St. Genou, un piccolo centro della Valle della Loira, per la produzione di oggetti in porcellana, spinto dal rapido aumento del commercio import-export di articoli pregiati. Con l’acquisizione, arrivò anche un brevetto per la cottura della porcellana dura in un forno a carbone, innovazione particolarmente efficiente per i tempi, aumentando la produzione dell’azienda. Quando però nel 1863 le spese superarono le entrate, la manifattura fu venduta. Il venticinquenne Siegfried Bing rilevò gli interessi di famiglia e acquisì azioni della Leullier fils una nuova manifattura di porcellana operante nel mercato locale. Avrebbe rifornito il negozio di famiglia in rue Martel a Parigi, fiorente nella vendita di porcellane e vetri artistici ad una clientela benestante. Padre e fratelli continuarono a gestire il punto vendita, mentre Siegfried, con questo suo ingresso nella manifattura Leullier, intraprese la sua ascesa. La produzione industriale incrementò e si distinse, così da essere premiata alle Esposizioni per l’eccellenza artistica di alcune delle sue creazioni. Erano quelli gli anni del regime bonapartista di Napoleone III, la Francia competeva con altre nazioni europee, in particolar modo con l’Inghilterra, nella fabbricazione di articoli di lusso, rinomati per le qualità estetiche e l’alto valore commerciale. Leullier fils produceva e decorava servizi in porcellana, ma realizzava anche lampadari e altri complementi d’arredamento per impreziosire le abitazioni di una borghesia rampante. Un set da tavola vinse persino una medaglia all’Esposizione Universale di Parigi del 1867. A maggio 1868 Jacob Bing morì, ma come da calendario a luglio Siegfried sposò Johanna Baer, una cugina di terzo grado, di famiglia ricca, colta e ben consolidata ad Amburgo. La coppia si trasferì a Parigi, al 31 di rue de Dunkerque, in prossimità degli uffici Leullier.

Exposition Universelle Paris, Porcellane Leullier Fils & Bing Incisione del 1867. 

Tuttavia, la stagione propizia era al volgere. Le nubi avverse delle crisi finanziarie del Secondo Impero e soprattutto la guerra franco-prussiana (1870-1871) avrebbero potuto rovesciare le fortune di Bing, per via della sua origine tedesca e degli stretti legami familiari con la Germania. Tuttavia, grazie all’abilità d’imprenditore, nonostante le avversità riuscì a rafforzare la propria immagine. Dopo avere trascorso a Bruxelles il periodo del pesante assedio prussiano di Parigi, Bing rientrando nella capitale dopo la resa trovò la Leullier in scompiglio. La maggior parte dei suoi dipendenti arruolati nell’esercito e il commercio delle arti decorative completamente crollato. Con una città prostrata dai lutti e dalla fame, caseggiati distrutti dai cannoneggiamenti, le persone erano preoccupate della sussistenza piuttosto che del lusso. Come se non bastasse la tragedia colpì la famiglia Bing. Il fratello di Siegfried, Michael, morì a febbraio del 1873 e il terzogenito della coppia, nato a maggio, morì due mesi dopo. Come può accadere nei momenti di crisi, c’è chi si lascia abbattere e chi invece trova la forza morale di affrontare e capovolgere la realtà. Bing, per primo, s’impegnò a mantenere attiva la manifattura di porcellana, evitando licenziamenti e stabilendo relazioni con diversi importatori stranieri. Quindi, richiese ed ottenne la cittadinanza francese. Era un passo dovuto. Non doveva essere facile per un imprenditore tedesco riavviare l’attività commerciale in una città straziata dalla guerra contro i prussiani. Nella sua domanda di naturalizzazione del 1876 si presentava come un candidato devoto alla Francia quale paese di adozione; di nascita tedesca, ma residente in terra francese da ventidue anni ininterrotti; senza alcun coinvolgimento in politica, ma interessato soltanto agli affari e alla famiglia, senza interessi diretti nel suo paese d’origine. Nonostante tutto, la Bing Gebrüder era ancora attiva e alla morte di Michael l’intera gestione ricadde su Siegfried, l’unico della famiglia Bing a trovarsi stabilmente in Francia.

Da sinistra: Siegfried Bing, Louis Gonse, Mme Roujon, Emmanuel Gonse e Mme Gonse a Midori-no-sato, 1899. Fotografia. Reims, Musée Le Vergeur, Société des Amis du Vieux Reims, Archivi Hugues Krafft

È precisamente in questi anni che Siegfried Bing cominciò ad interessarsi di arte orientale e a collezionare oggetti ceramici di raffinata fattura. Dal momento che era pur sempre un uomo d’affari, con una forte propensione per le arti decorative, si può dire che seppe fiutare il mercato che lo indirizzava quasi naturalmente a soddisfare la mania dei parigini per le curiosità giapponesi. Questo, almeno, è quanto si legge riguardo ad un uomo particolarmente riservato. Scrive Gabriel P. Weisberg, il suo maggiore biografo: «Sempre discreto, Bing era piuttosto ossessivo riguardo alla decisione di nascondere la propria identità; solo poche persone conoscevano le sue collezioni private, e ancor meno sapevano qualcosa della sua vita personale. Per lui, l’opera d’arte che difendeva – fosse giapponese o, più tardi, una sua versione Art Nouveau – era la sola cosa più importante; il suo ego, e la vita, dovevano essere sublimati, addirittura eliminati». Ci sono, tuttavia, alcuni fatti particolari che vanno presi in considerazione. A partire dal 1870 il cognato di Bing, Martin Michael Bair, ricoprì per due mandati (1870-74 e 1877-81) l’incarico di console a Tokyo. La sua posizione gli permetteva di intrattenere rapporti con l’alta società giapponese e apprezzare le migliori raccolte d’arte private. Da buon collezionista, acquistò articoli selezionati, non solo per sé stesso, ma anche per Bing.  Nella sua qualità favorì lo sviluppo di relazioni commerciali, come nel caso della Ahrens and Company, società di import-export, che aveva uffici a Yokohama, Tokyo e Londra. Fatto sta che nel 1874 Siegfried Bing era già diventato un collezionista abbastanza conosciuto da essere invitato a unirsi alla Società dell’Asia orientale di Tokyo. Nel marzo del 1876 organizzò, inoltre, la sua prima esposizione pubblica all’Hotel Drouot, la più grande casa d’aste parigina, nota per le belle arti, l’antiquariato e le antichità. La vendita gli fruttò oltre 11.000 franchi, e questo suggerisce che all’epoca avesse già raccolto una buona collezione di oggetti esotici da proporre alla sua platea di acquirenti. «Questa vendita – annota Gabriel P. Weisberg – presentò anche il primo record del suo pubblico coinvolgimento in questo mercato».

Henry Somm, Fantaisies Japonaises, S. Bing, Rue Chauchat, incisione del 1879 circa

La mania viscerale dei parigini per l’arte giapponese trovò ampio sfogo due anni dopo, in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi del 1878. L’enorme padiglione giapponese ospitò, nel corso dell’evento, campioni e dimostrazioni pratiche riguardanti l’arte e l’industria. I numerosi visitatori furono avvinti dagli aspetti della vita e della cultura del Sol Levante, resi espliciti da una dovizia di notizie su ogni luogo specifico e su ogni tecnica adottata dagli artisti e dagli artigiani, che fosse ceramica o bronzo. Siegfried Bing, naturalmente, non si lasciò sfuggire l’occasione, perché programmò l’apertura del suo nuovo negozio, al 19 di rue Chauchat, in coincidenza con l’apertura dell’Esposizione e del suo ricercatissimo padiglione giapponese. Non è necessario rimarcare che ebbe un grande successo, tanto da ripagare l’investimento iniziale e permettergli nel giro di quattro anni di acquistare definitivamente i locali. Era giunto ormai il tempo per Siegfried Bing di stabilire legami diretti con i giapponesi e organizzare il suo primo viaggio in Estremo Oriente, che immancabilmente ebbe luogo nel 1880.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Storia del negozio che ha identificato l’Art Nouveau in Italia

di Sergio Bertolami

19 – Arthur Lasenby Liberty seguace di William Morris

Le trasformazioni artistiche o letterarie sono quasi sempre lente, mai lineari, né assolute. Neppure sotto il profilo temporale, per cui leggere su qualche testo che lo Stile Liberty ebbe inizio nel 1890 dovrebbe far sorgere qualche comprensibile dubbio. Questo perché, se il termine Liberty fu usato in Italia in riferimento ai magazzini londinesi di Arthur Lasenby Liberty, occorrerebbe considerare anche che tali magazzini furono aperti nel 1875. Ancora prima di Liberty, fu William Morris a ideare the Firm nel 1861, influenzato dalle idee di Augustus Pugin e John Ruskin che occorresse contrastare il pressappochismo dell’industria nascente e tornare all’artigianato e al lavoro manuale degli artisti medievali. Non erano che influssi di un radicato romanticismo. Riflettiamo, però, che erano anche gli anni in cui si cominciavano a brevettare le prime “carrozze a vapore”, quelle che noi chiamiamo automobili, per farle circolare sulle strade comuni e non solo su strade ferrate. Al contrario William Morris avrebbe voluto piantare una bella frenata all’industria nascente. Fondò la confraternita dei Preraffaelliti e con alcuni di questi – Burne-Jones, Rossetti, Webb, Ford Madox Brown, Charles Faulkner e Peter Paul Marshall ­– aprì la sua impresa per produrre artigianalmente carte da parati, tessuti chintz (quelli che in Francia s’imporranno col nome di toile de Jouy), tappeti, piuttosto che mobili, vetri o metalli. Il tutto con la speranza di ripristinare la decorazione, quale una delle belle arti. Nondimeno, a ben riflettere, l’opera di Morris non si identificò in tutto e per tutto con la storia della sua ditta commerciale. Più che da imprenditore, in quanto critico d’arte, pubblicista, pittore, decoratore e grafico, fu il tenace assertore di alcune idee che ritroveremo sempre più mature nel corso della prima metà del Novecento. Fra tutte: la diffusione di manufatti semplici e corretti in un mercato in evoluzione soggetto invece alla routine meccanicistica del tempo, la distinzione degli elementi strutturali e dei materiali, una produzione che premiasse le competenze tecniche ed estetiche degli artigiani manifatturieri. Sono questi alcuni dei principi ideali, che ritroveremo nella coscienza critica della moderna rivoluzione artistica, della quale sto provando ad accennare sommariamente il percorso.

Uno dei cataloghi della società di William Morris
The Arts et Crafts, Exibition Society di Londra

Arthur Lasenby Liberty non era lontano dalle idee di William Morris e dal suo movimento delle Arts and Crafts (Arti e Mestieri); ma, differentemente da lui, non demonizzava affatto la meccanizzazione in ascesa. Questo fu l’elemento che lo portò al successo, perché non aveva soltanto gusto, ma anche il fiuto negli affari. Non appena i porti giapponesi ripresero a commerciare con l’Occidente, dal 1853, in Europa si diffuse una considerevole varietà di prodotti fino ad allora conosciuti da pochi estimatori. Tra questi, sete, porcellane, ventagli e kimono, stampe da blocchi di legno in stile Ukiyo-e. «Il desiderio di possedere oggetti giapponesi – scriveva Christopher Dresser, tra i maggiori interpreti del movimento di Morris – si diffuse con l’apertura dell’Esposizione Internazionale del 1862, e di lì a breve i nostri commercianti iniziarono ad interessarsi alla produzione di questi strani oggetti come articoli commerciali». Nel 1874, dopo oltre una decina d’anni di servizio presso la Farmer & Rogers, al rifiuto di essere nominato partner della fiorente attività alla quale aveva contribuito, Arthur Lasenby Liberty decise di aprire un esercizio commerciale in proprio. Si fece prestare poco più di 2.000 sterline dal futuro suocero e affittò solo mezzo negozio al n° 218 di Regent Street, nel nascente West End di Londra. Il negozietto del trentaduenne Liberty mostrava già dall’insegna East India House (Casa dell’India orientale) che vi si vendevano articoli d’importazione, come sete d’arredamento, tappezzerie, oggetti decorativi e d’arte, provenienti dalle Indie, dal Giappone e dall’Estremo Oriente. Non passarono che diciotto mesi, per essere in grado di rimborsare il prestito e acquisire pure la seconda metà del magazzino di Regent Street. Fu così anche per gli anni successivi, perché man mano che l’attività cresceva, continuò ad acquistate e aggiungere, di proprietà in proprietà, anche i locali attigui. Le idee non mancavano. Sostenitore di un design conveniente in quanto a prezzo, ma distintivo per la qualità, non solo importava articoli, ma si rivolgeva anche a piccoli industriali per produrre mobili, articoli per la casa e tessuti pregiati. Strinse accordi per commercializzare tessuti prodotti in serie limitate, abbattendo i prezzi di vendita rispetto a quelli tradizionalmente fatti a mano. Per questo motivo, Liberty prese a pubblicare, dal 1881, cataloghi che presentavano sete pregevoli per varietà di colore, stampa e peso. I Liberty Art Fabrics divennero largamente ricercati ed imitati. I coloranti all’anilina, usati nella filiera industriale, in questi tessuti d’arte artigianali furono scartati a favore dei coloranti naturali; furono, inoltre, enfatizzate la classicità dei disegni e l’irregolarità della tessitura, che evidenziavano la produzione artigianale. Le sete Mysore di Liberty, per esempio, erano tessute a mano in India, prima di essere tinte e stampate a mano in Inghilterra, e infine promosse come «riproduzioni esatte di antiche stampe indiane».

Arthur Lasenby Liberty ritratto da Arthur Hacker (1913)

Nel 1884 Liberty introdusse il reparto “costume”, diretto da Edward William Godwin, rinomato architetto e fondatore della The Costume Society. Insieme crearono capi di abbigliamento per sfidare la concorrenziale moda parigina. L’anno successivo acquisì anche i locali di Regent Street al n°142-144 per soddisfare la crescente domanda di tappeti e mobili. Il seminterrato fu riorganizzato per dare vita al Bazar Orientale, con ampia esposizione di oggetti d’arredo decorativi. Il negozio divenne il ritrovo di Londra dove incontrarsi per fare gli acquisti alla moda, il luogo in cui vedere ed essere visti, dove s’incontravano uomini e donne dal gusto raffinato ed anche personaggi importanti. Qualificavano il negozio, all’attenzione del pubblico, scrittori di grido come Oscar Wilde o artisti ammirati come il preraffaellita Dante Gabriel Rossetti, alla ricerca di sete per drappeggiare le modelle dei suoi dipinti. A novembre del 1885, Liberty – con l’evidente obiettivo di promuovere il suo settore di oggetti d’antiquariato e curiosità orientali – mise in scena un “villaggio vivente” con quarantacinque abitanti fatti venire da un vero villaggio indiano. «Saranno impegnati solo per quattro ore di lavoro al giorno, e dovranno esibirsi in tutte le attrazioni di Londra» precisava The Times of India. Agli uomini erano offerte 75 rupie al mese, 25 alle donne, per sei mesi di presentazioni nel villaggio allestito da Liberty, con la possibilità di un rinnovo dei contratti, un pubblico di alta qualità – persino la regina Vittoria – e l’aspettativa di ricevere mance da parte degli spettatori. Fu il primo dei bellissimi set giapponesi, francesi, inglesi, messi in scena nel corso degli anni. l’Illustrated London News elogiava: «Presenta in un piccolo spazio una varietà di industrie indù tipiche, ed è popolata da quarantacinque indigeni provenienti da diversi distretti dell’India, di diverse caste e credo. Entrando nel villaggio, le cui case sono rappresentazioni accurate dell’architettura indiana, lo sguardo viene catturato dai colori variegati e brillanti dei tessuti e dei costumi orientali». Una mescolanza di culture indiane che lasciavano le pagine dei periodici illustrati per comparire, grazie a personaggi in carne e ossa, nel negozio del signor Liberty: ballerini, acrobati, musicisti, lottatori, prestigiatori, soprattutto filatori di seta, tessitori, intagliatori di legno di sandalo, ricamatori, orafi e argentieri. Un artigiano costruiva davanti agli spettatori il suo sitar, un grande liuto indiano da suonarsi con un plettro. «Una delle occupazioni più interessanti – descriveva ancora l’Illustrated London News – è quella del vasaio, che, con la sua ruota di tipo antico e le sue dita, plasma una varietà di articoli di bella simmetria, anche se di semplice carattere».

East India House, negozio di Arthur Lasenby Liberty su Regent Street

A partire dagli anni Novanta, Liberty incentivò il lavoro di artisti e artigiani come Christopher Dresser, Rex Silver, Frederickl James Patridge, Richard Lethaby. Fra questi, Birmingham William Hassler e il famoso Archibald Knox erano specializzati argentieri. Le influenze degli stili suscitati dalle Arts and Crafts non tardarono ad imporsi e a svilupparsi. È, infatti, tra le fila di questo movimento che troviamo i primi artisti Art Nouveau. Fra di loro si svilupperà quell’interesse per la natura, quel gusto floreale, che contraddistinse ovunque gli artisti dell’Art Nouveau. Non meraviglia, dunque, se persino oltre Oceano il New York Mail decantava: «Vaghi per le numerose stanze del loro grande magazzino come in un sogno incantato». Un sogno che si riverberò in Italia quando nel 1902 aprì i battenti la grande Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna di Torino. La Mostra «antesignana sempre di ogni idea di Libertà e Progresso» fu espressamente progettata in chiave moderna. Il suo scopo era esplicito sin dalle notifiche iniziali: «Saranno ammessi solo prodotti originali che mostrano una decisa tendenza al rinnovamento estetico della forma. Non saranno accettate mere imitazioni di stili passati, né prodotti industriali non ispirati da un senso artistico». Alla Esposizione d’Arte Decorativa si aggiunsero altre mostre particolari. Una Esposizione Internazionale di Automobili: la FIAT era stata fondata tre anni prima ed esponeva, fra l’altro, un’automobile che percorse i 847 chilometri della linea Torino-Firenze-Roma in un tempo eccezionale: 21,30 ore consecutive. Una Mostra di Fotografie artistiche e l’Esposizione Quadriennale di Belle Arti. Tutte queste Esposizioni, come specificava il catalogo, trovarono posto nello stesso recinto situato nel vastissimo Parco del Valentino, sulla sponda sinistra del Po.

Manifesto dell’Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna a Torino (1902), di Leonardo Bistolfi

Nella stessa pagina di apertura del catalogo è possibile leggere: «Spiriti rivoluzionari, menti di poeti, male si adattano gli Artisti alle viete forme che li obbligano a copiare, mentre in essi innato è l’istinto del creare. E non mancava certo ragione alla loro aspirazione. Ogni età ebbe il suo stile, manifestazione e prova della civiltà che rappresenta, così abbiamo lo stile Egiziano, il Greco, il Cristianesimo, il Rinascimento, il Barocco ed il Napoleonico, rappresentanti tutti una evoluzione del pensiero adatto a civiltà dei tempi in cui si esplicava e veniva creato. A ragione dunque essi anelavano dare un’impronta propria allo stile dell’età presente. Spontaneamente, dalle più variate regioni, innumeri Artisti esplicavano il loro pensiero rappresentandolo con lavori che diedero certo segno che i tempi erano maturi per una ardita innovazione». Per incoraggiare questa grande rivoluzione moderna, il compito di allestire una Esposizione unitaria fu affidato al «bravissimo D’Aronco, architetto del Sultano di Turchia». Raimondo D’Aronco, che aveva sempre alternato la progettazione con l’insegnamento – prima all’Accademia di Carrara, poi a Cuneo, a Palermo, e infine all’Università di Messina – dal 1893 lavorava in Turchia, dove, in seguito al terremoto di Istanbul del 1894, fu architetto-capo per la ricostruzione della città. Con i padiglioni per l’Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa Moderna di Torino del 1902, contribuì alla diffusione della popolarità dell’Art Nouveau in Italia. Del suo lavoro, scrive Pieter van Wesemael (in Architecture of Instruction and Delight) che nella storia delle Esposizioni universali, l’unica mostra dedicata esclusivamente a un solo stile artistico fu proprio quella di Torino, segnando il successo dell’Art Nouveau in Italia. O meglio dell’arte Liberty come da noi fu chiamata quest’Arte Nuova.

Guida dell’Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna a Torino (1902)
SFOGLIA

Naturalmente nel catalogo della Mostra torinese non si parla di un’arte la cui risonanza deve ancora esplodere fra il largo pubblico. Né si fa il nome di Arthur Lasenby Liberty, giacché non si elencano gli espositori commerciali, ma soltanto i padiglioni nazionali e la rassegna delle opere d’arte ufficiali. Proviamo a dare un’occhiata, scoprendo quali erano gli interessi del tempo, i personaggi in vista, le opere poste all’attenzione. Comprenderemo che ogni epoca ha i propri miti, allora come oggi: «A sinistra l’ingresso alle altre sale della Mostra inglese. Esaminiamo in questa prima sala i disegni, libri, giornali illustrati, caricature, ecc., di Walter Crane.
La seconda sala, intitolata alla The Arts et Crafts, Exibition Society di Londra, è divisa in dieci ambienti, cinque per parte.
Notiamo nel primo ambiente a destra una lampada da parete per elettricità. Il pavone che vi vediamo è in argento smaltato, e due scrivanie di Ashbee e di Guild. I quadri sono di Southalt.
Nel primo ambiente di sinistra osserviamo un paravento sul quale R. Moton-Nance dipinse le tre caravelle di Cristoforo Colombo. Vi si trova pure una vetrina con gioielli smaltati, bottiglie e coppe di cristallo inciso di Jaïmes Powel.
Nel terzo ambiente, a sinistra, sta esposto un arazzo, le Quattro Stagioni, di William Morris; questo lavoro venne incominciato nel 1834 e terminato nel 1896. Nel terzo ambiente, a destra, la Essec and C. Y. di Westminster espone tappezzerie. Vi è pure il disegno per grande arazzo, dipinto da Brangwyn.
Nel quarto ambiente a sinistra troviamo vetrine con lavori in cuoio (rilegature di libri) e con la mostra di composizioni tipografiche della Libreria Hacou e Richelts di Londra.
Nella corsia della sala osserviamo una vetrina con Lavori decorativi in metallo della ditta W. A. S. Benson e C. di Londra.
Una statua in bronzo di W. R. Colton, rappresentante un trovatore di mummie.
Nella terza sala, a sinistra, esaminiamo due quadri: La nascita di Venere ed I conquistatori del mondo, entrambi di Walter Grane; a destra esamineremo vari progetti-disegni per vetrate a colori e tappezzerie. Nell’ultima sala Walter Grane espone Studi di fiori, acquerelli e disegni».

Tavole fotografiche sull’Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna a Torino (1902)
SFOGLIA

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Art Nouveau il primo vero stile internazionale dell’età moderna

di Sergio Bertolami

18 – Un movimento dalle poliedriche manifestazioni.

Tchudi Madsen in Sources of Art Nouveau del 1956 elencava una serie di nomi utilizzati, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, per identificare il nuovo fenomeno artistico. Alcuni di questi nomi li abbiamo già incontrati, ma ne vorrei aggiungere altri, per chiarire qualche importante concetto. Cominciamo dai nomi. Troviamo un sintetico Style 1900 e appellativi che alludono agli aspetti puramente formali: Stile anguilla (Paling Sijl), Lombrico arrabbiato (Gereitzer Regenwurm), Stile onda (Wellenstil), Stile giglio (Lilienstil), Stile spaghetti (Style Nouille), Stile a spirale (Schnörkestil), Linea giarrettiera moderna (Moderne Strumpfbandlinien). Con riferimento agli ambiti geografici, oltre a quelli già detti, in Inghilterra a Modern Style si affianca Glasgow Style, Style Morris, dal nome del critico William Morris; in Francia oltre ad Art Nouveau, scopriamo Style Jules Verne, oppure Style Guimard o Style Métro, associato al disegno particolare degli ingressi alle stazioni della metropolitana parigina progettati appunto dall’architetto Hector Guimard. In Germania, oltre a Stile nuovo (Neustil) e Nuova arte tedesca (Neudeutche Kunst), si parla anche di Tenia belga (Belgoscher Bandwurm). Per contro in Belgio si usa Belgische Stil, Style des Vingt dal gruppo artistico dei Venti, e ancora Veldesche Stil o Stil van de Velde e Style Horta, in relazione all’arte innovativa dei noti architetti Henry van de Velde e Victor Horta. 

Si potrebbe continuare nell’elencazione, ma dovremmo domandarci piuttosto: perché tante e così varie denominazioni? L’idea che restituiscono questi nomi è sicuramente meno “generica” di Arte nuova, declinata nelle differenti lingue nazionali. Generica, perché è “nuova” qualsiasi cosa «avvenuta o manifestatasi da poco, spesso in contrapposizione diretta a vecchio, antico, e quindi con significato prossimo a recente, attuale, moderno» (Treccani). Basterà ricordare il titolo del libro già citato di Ludwig Hevesi, Altkunst – Neukunst (Vecchia arte – nuova arte, Vienna 1894). Ai tempi, si voleva, dunque, generare un’arte “nuova e moderna”, quale espressione di tutte le forme peculiari ancorate al progresso e all’evoluzione che caratterizzavano l’età che si stava vivendo. Tutto ciò in contrapposizione a quanto era vecchio e antiquato, o quantomeno convenzionale, accademico, canonico. Lo attestavano gli stessi protagonisti del cambiamento, come ad esempio Henry van de Velde ed Hermann Muthesius. Van de Velde contestava l’idea che si dovesse raccordare l’arte con l’industria. Idea sostenuta da Muthesius, che aveva fondato la Deutscher Werkbund, un’associazione orientata ad aumentare la qualità dei prodotti artigianali e industriali. Non era una semplice polemica fra architetti di diverse nazionalità, il primo belga, il secondo tedesco. Era il cuore del problema. Affermava Van de Velde: «Finché ci saranno nel Werkbund degli artisti […] essi contesteranno ogni tipo di standardizzazione. L’artista è essenzialmente un appassionato individualista, un creatore spontaneo. Non si sottoporrà mai ad un canone». Affronteremo questa tematica nello specifico, perché aprirà un importante ragionamento su “Arte e Industria”. Per ora cerchiamo di comprendere meglio questa “Arte nuova” che pervade l’orizzonte europeo.

Dalla molteplicità delle denominazioni si ravvisa che l’Art Nouveau è l’insieme di esperienze individuali influenzate dalla cultura di Paesi differenti. Per cui è comprensibile la contrapposizione fra il belga van de Velde e il tedesco Muthesius, l’uno interessato alla libertà creativa dell’artista, l’altro precursore dell’Industrial design. Così come è evidente un’altra contrapposizione, tra le aspirazioni dello stesso Muthesius, indirizzato alla “progettazione industriale”, e le aspirazioni dell’austriaca Wiener Werkstätte attratta dal prodotto di “alto artigianato”, seguendo la lezione inglese delle Arts and Crafts (Arti e Mestieri). In pratica l’Art Nouveau si presentava come un movimento rivoluzionario dalle mille sfaccettature e dalle mille contraddizioni, tanto da poter essere recepito per alcuni aspetti estremi quasi come un movimento reazionario. Rifiutava lo storicismo, ma assecondava i revival ; anticipava sorprendentemente gli sviluppi futuri, ma elogiava il pezzo unico frutto del lavoro artigianale di qualità e per questo avversava la meccanizzazione. Alcuni celebravano le scoperte della tecnica, mentre altri segnalavano i pericoli della produzione seriale nel livellamento dei gusti di massa. Il dibattito culturale si presentava, dunque, sfaccettato. Da tutto ciò conseguiva l’impossibilità, a tutti gli effetti, di definire nell’Art Nouveau un’estetica modernista univoca. Nonostante questo, il fenomeno si riverberò di nazione in nazione investendo tutta l’Europa e, oltrepassando l’Oceano, approdò anche in America.

Le tre Gorgoni all’ingresso al Palazzo della Secessione a Vienna progettato da Joseph Olbrich nel 1898
Alfons Mucha, Le quattro stagioni, 1897

Tutte quelle differenti denominazioni rappresentavano la prova tangibile che l’Art Nouveau, pur costituendo il primo vero stile internazionale dalla diffusione globale, era sfaccettato in poliedriche manifestazioni non riunite da un comune programma. Si moltiplicava in area europea la frammentarietà già riscontrata nelle stesse Secessioni, dove quella di maggior vigore fu l’austriaca, perché s’identificò almeno inizialmente con le idee del “gruppo Klimt”. Per comprendere queste contrapposizioni, basterebbe limitarsi a confrontare, in massima sintesi, proprio i caratteri della Secessione viennese con quelli della più ampia Art Nouveau europea: senso della decadenza – senso della modernità; solennità – vitalismo; staticità – dinamismo; forme geometriche – forme naturalistiche; linea spezzata – linea sinuosa; donna idolatrata – donna floreale. Quale era, al contrario, la linea comune che legava insieme questa tavolozza dalle tinte variegate? Direi l’opposizione all’Accademia e la volontà di portare avanti, comunque, la ricerca estetica verso sempre nuove sperimentazioni. Ma un altro aspetto pare non trascurabile e davvero unificante. Lo evidenziava bene Theodor Adorno, quando sottolineava che l’emancipazione dell’arte fu possibile solo sviluppando una sorta di “ideologia della citazione a domicilio dell’arte nella vita” attraverso l’assimilazione del “carattere di merce” quale preludio dell’industria culturale: «Il progredire di una differenziazione soggettiva, la crescita e l’ampliamento della sfera degli stimoli estetici, rese questi ultimi disponibili; essi poterono essere prodotti per il mercato culturale. L’accordo dell’arte con le reazioni individuali più fuggevoli si alleò con la reificazione dell’arte, la sua crescente somiglianza col soggettivamente fisico la allontanò, nella ampiezza della produzione, dalla sua obiettività e si raccomandò al pubblico; pertanto, la parola d’ordine l’art pour l’art fu la copertura del contrario».

Copertina del libro Wren’s City Churches di Mackmurdo, una stampa da The Hobby Horse (Inghilterra), pubblicata da G. Allen nel 1883

Il dibattito artistico, di per sé astratto, dunque, secondo Adorno trovò la propria concretezza in un’ampia produzione merceologica da offrire al pubblico. Ad avvalorare questo pregnante concetto è il fatto che in genere i maggiori esponenti dell’Art Nouveau, più che dall’architettura o dalla pittura, furono attratti dalle arti decorative, dal nascente design e dall’arredamento d’interni, dalla grafica e dall’editoria. Certo non mancarono architetti innovatori, come vedremo, né scarseggiarono pittori, ma quest’ultimi per esempio continuarono i temi simbolisti, rileggendoli in chiave personale e originale attraverso una notevole varietà di soggetti che influiranno su molti dei movimenti futuri. A ben guardare fra i primi esempi di questa nuova sensibilità “floreale” vanno citati i lavori di Arthur Heygate Mackmurdo. Ad esempio, la copertina di un libro del 1883 sulle chiese londinesi di Wren (Wren’s city churches) oppure i suoi disegni di stoffe, arazzi o lavori in metallo e mobili degli anni Novanta dell’Ottocento. Sicuramente è il pioniere di un linguaggio che si svilupperà nei decenni successivi, partendo dall’Inghilterra. Non va dimenticato, infatti, che Mackmurdo aveva studiato alla Ruskin School of Drawing and Fine Art di Oxford e nel 1874 aveva accompagnato lo stesso John Ruskin in Italia. In questo contesto culturale non è possibile non riferirsi anche a William Morris. Il primo effetto – osservava Nikolaus Pevsner – fu che sotto l’influsso degli insegnamenti di Ruskin e di Morris «molti giovani artisti, architetti e dilettanti, decisero di dedicarsi all’arte applicata. Ciò che per oltre mezzo secolo era stata considerata una occupazione inferiore, diventò nuovamente un compito nobile e degno». Sono questi gli anni in cui cominciò l’importazione degli oggetti orientali grazie all’apertura di una politica di scambi col Giappone. Probabilmente si deve proprio a questi scambi l’humus dell’innovazione; in modo particolare all’opera degli importatori di quei manufatti, tra i quali si distinsero Arthur Lasenby Liberty – il cognome del quale indicò in Italia quello che al momento era chiamato Stile floreale – o Sigfriend Bing, la cui bottega d’arte orientale a Parigi dette alla nuova produzione artistica la denominazione di Art Nouveau. Su Liberty e Bing ci soffermeremo ampiamente nelle prossime pagine.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Laboratori d’arte per dare vita ad oggetti, di cui l’utilità è il primo principio

di Sergio Bertolami

17 – Nasce la Wiener Werkstätte di Hoffmann e Moser.

L’azienda Wiener Werkstätte (vale a dire Laboratori viennesi) nacque con l’intento di rinnovare le arti applicate sulla base di un artigianato di alta qualità. Per farlo occorreva produrre soltanto oggetti unici, di straordinaria bellezza e di esclusiva fattura. Il motto ricorrente era: «Meglio lavorare su di un oggetto per dieci giorni che produrre dieci oggetti in un giorno». Perciò fa un certo effetto cogliere una nota ironica su di una rivista del tempo: «Per giudicare le esigenze comuni osservate il modo in cui si acquistano i regali. La folla compra chiedendo: “Vorrei qualcosa di veramente economico, ma molto appariscente!” Ovviamente non c’è niente per loro nella Wiener Werkstätte». Non a caso, nel corso del primo anno di esistenza furono realizzati soltanto gioielli. Rimasero sempre i pezzi artistici preferiti, ma ben presto furono affiancati da una miriade di oggetti di uso quotidiano, preziosi però quanto gli stessi gioielli: mobili, tessuti, ceramiche, vetri, complementi d’arredo. La Wiener Werkstätte – indicata anche come Wiener Werkstatte, Vienna Workshop, Wiener Werkstaetten o Wiener Werkstätten – mirava ad unire tutti gli aspetti della vita sociale in un’opera d’arte totale, quella Gesamtkunstwerk da considerarsi come il denominatore comune per chi s’identificava con la Secessione viennese. I promotori, e gli artisti moderni più importanti che operarono per l’azienda, facevano parte del cosiddetto “Gruppo Klimt”, stretti intorno al celebre pittore. Sebbene, senza troppo rumore, fosse stata fondata nel 1903 come una semplice impresa commerciale, due anni dopo la Wiener Werkstätte s’identificò con le prerogative di uno specifico programma artistico, indirizzato principalmente all’emergente classe medio-alta della monarchia. Era strutturata, infatti, come una società produttiva formata da artisti e artigiani. Nel 1905 già contava un centinaio di dipendenti – fra i quali 37 erano i maestri artigiani – che avevano diritto, oltre al loro guadagno settimanale, ad acquistare una quota dei profitti realizzati; la quota costava duecento corone, pagabili in dieci rate mensili uguali. Con il consenso dell’esecutivo, si potevano acquisire ancora più quote, ma occorreva pagarle per intero al momento dell’acquisto. Gli ideatori di una simile azienda, che innovava persino lo status giuridico del lavoratore austriaco, erano impegnati in prima persona nella conduzione dell’impresa che avevano fondato: l’architetto e designer Josef Hoffmann, il pittore e grafico Koloman Moser, e Fritz Waerndorfer, un imprenditore con la propensione per l’arte moderna. Ai tre si aggiungerà Carl Otto Czeschka, forse meno conosciuto, ma sicuramente il più notevole fra i vari progettisti interni all’azienda. In un articolo del 1911, la prestigiosa rivista The Studio (Illustrated Magazine of Fine and Applied Art) anche di quest’ultimo, oltre che dei fondatori, esaltava le qualità: «Solo un oggetto in mostra assicurerà il suo nome fino ai posteri: un magnifico armadietto d’argento, acquistato per oltre 50.000 corone il giorno dell’inaugurazione da Herr von Wittgenstein, uno dei principali mecenati austriaci dell’arte moderna».

Il logo dell’azienda

Dal canto suo, anche l’imprenditore Fritz Waerndorfer fu, a tutti gli effetti, il cuore e l’anima della Wiener Werkstätte, giacché ritagliandosi il ruolo di direttore commerciale trasformò quello che avrebbe potuto essere un semplice laboratorio d’arte in un vero e proprio marchio, una maison d’alta classe. Investendo i capitali necessari per avviare l’attività, permise ai due promotori artistici di realizzare la loro ambizione. Hoffmann e Moser – entrambi membri chiave della secessione viennese – costituivano un vero e proprio binomio: si completavano a vicenda talmente bene che spesso era difficile distinguere i rispettivi progetti. Gli obiettivi d’altronde erano chiari ed univoci. Precisamente, per citare le parole di Hoffmann, erano quelli di «creare uno stretto contatto tra il pubblico, i designer e gli artigiani, dando vita a buoni e semplici oggetti d’interni, di cui l’utilità è il primo principio, ma con altri evidenti punti di forza basati sulle giuste proporzioni e nel giusto trattamento dei materiali, introducendo la decorazione soltanto quando possibile, mai forzandola o sovraccaricandola». È evidente come Hoffmann e Moser cercassero di promuovere una sapiente artigianalità negli oggetti domestici di uso comune, sul modello Arts and Crafts, escludendo però le decorazioni ridondanti della tradizione eclettica, che a loro avviso ne rendevano poco chiare le funzioni. Josef Hoffmann, occupato già da cinque anni nell’insegnamento alla Scuola di Arti applicate (Kunstgewerbeschule), all’interno dell’azienda assunse la responsabilità di direttore artistico. Intorno a lui raccolse alcuni fra i migliori creativi austriaci: oltre a Kolo Moser e a C. O. Czeschka, è bene citare Otto Prutscher, Adolf Bohm, Berthold Loffler, R. von Larisch, Edward Wimmer, Paul Roller, Michael Powolny, Leopold Forstner e Alfred Roller (direttore della Kunstgewerbeschule), mentre tra gli amici e simpatizzanti dell’istituzione erano Gustav Klimt, il prof. Otto Wagner, Carl Moll, i professori Metzner e F. Lederer , W.F. Jager, Anton Kling, Moritz Jung, il prof. Emil Orlik, Rosa Rothansel, Richard Taschner. Come si nota, tutti austriaci, i quali per ragioni professionali operarono anche in Germania.

Sala reception della Wiener Werkstätte

L’azienda prese sede nel quartiere urbano di Neubau, al 32–34 della Neustiftgasse, dove fu ristrutturato un edificio commerciale già esistente. I piani spaziosi ospitarono gli uffici e l’intero complesso delle attività produttive. L’igiene era alla base di una bellezza invitante, si leggeva sui giornali. Gli ambienti interni erano luminosi e salubri – a differenza delle solite fabbriche, sporche e tristi come caserme – le pareti e le parti in legno erano dipinte di bianco, quelle in ferro erano blu o rosse; inoltre, per caratterizzare ogni laboratorio vi dominava un colore specifico. All’entrata era posta una sala reception, che permetteva la collocazione a vista dei prodotti realizzati. La sala era dotata di vari salottini per le contrattazioni; in aggiunta, nel 1907, fu aperto un negozio nel centro della città, così anche il pubblicò poté ammirare direttamente le creazioni. Nelle vetrine della sala espositiva, incassate a muro, era presentata una panoramica delle numerose opere d’arte in metallo prezioso, legno, cuoio, vetro e pietre dure, gioielli e oggetti d’uso quotidiano. Tutte in forme rigorosamente coerenti alla propria funzione e al materiale. Spingendosi avanti, si incontravano gli uffici di progettazione per l’architettura e le arti applicate; nonché una buona biblioteca per istruirsi o aggiornarsi. La gran parte dello spazio dell’edificio era chiaramente destinata ai vari laboratori, dedicati alle lavorazioni di oreficeria, argenteria, gioielleria con incastonati avori cesellati e pietre preziose, officine per tutti i tipi di metalli o per l’intaglio del legno. C’era persino la legatoria per i libri e non mancavano la pelletteria, la sartoria e la modisteria, dove venivano foggiati con stile nuovi modelli di abiti, accessori e cappelli.

Alcuni dei laboratori

Piuttosto che il rumore della fabbrica, questo era il luogo dell’artigianato più silenzioso, seppure anche qui fossero installate attrezzature meccaniche. La Wiener Werkstätte, infatti, era al passo con tutte le innovazioni tecniche del momento, con una differenza sostanziale, come le cronache dell’epoca evidenziavano: «È completamente attrezzata, ma qui la macchina non è sovrana e tiranna, è invece al servizio degli artigiani, e i prodotti non ne presentano la fisionomia industriale, ma esprimono lo spirito dei loro creatori all’insegna dell’arte». La Wiener Werkstatte si articolava, dunque, in numerose manifatture, e per altre operazioni, che non poteva svolgere direttamente, si appoggiava ad una rete di fabbriche specializzate di alto pregio.

Servizio da tè di Josef Hoffmann, 1903 – © MAK/Georg Mayer
L’archivio della Wiener Werkstätte è oggi conservato al MAK – Museo di Arti applicate di Vienna ed è costituito da 16.000 bozzetti e 20.000 pezzi fra corrispondenza commerciale, cataloghi, campionature, manifesti pubblicitari, album fotografici. Inoltre, il museo espone una raccolta dei prodotti per documentare tutte le fasi creative dell’azienda.

Josef Hoffmann, ad esempio, intrattenne con la viennese J&L Lobmeyr, produttrice di lampadari e cristallerie, un lungo rapporto di collaborazione, reso più intenso dall’amicizia con Stefan Rath, che aveva ereditato la società dal nonno. Gli articoli in ceramica furono invece prodotti nella Wiener Keramic-Werkstatte condotta da Michael Powolny e dal prof. Berthold Loffler, le lavorazioni a mosaico furono eseguite nella Wiener Mosaic-Werkstatte guidata da Leopold Forstner, i tessuti stampati a macchina od operati a mano furono realizzati da Backhausen and Sons, così molte altre attività furono compiute sempre in stretto contatto con la WAV, come familiarmente era chiamata la Wiener Werkstätte fra gli addetti ai lavori.

Sale da pranzo del Sanatorio Purkersdorf

Il settore di architettura era uno dei più importanti all’interno della Wiener Werkstätte. L’architetto responsabile, Paul Roller, aveva studiato col prof. Otto Wagner all’Accademia di Belle Arti, come d’altronde aveva fatto lo stesso Hoffmann. Paul Roller era più di un architetto, informa sempre The Studio: «Pratico come un muratore, avendo attraversato tutte le fasi del suo mestiere, è un operaio completo nel miglior senso della parola, oltre ad essere un uomo della più alta intelligenza. Ha diversi giovani architetti che lavorano sotto di lui, come Karl Brauer, Emil Gerzabek, Wilhelm Martens, Johann Schloss e Rudolf Auswald, tutti ex studenti della Kunstgewerbeschule di Vienna, un fatto che la dice lunga sulla qualità del lavoro svolto alla Werkstatte». Questa attenzione all’architettura era sostanziale nella conduzione dell’azienda. Per capire come una iniziativa, sia pure artistica, possa imporsi (o al contrario declinare) non si possono tralasciare le strategie economiche e finanziarie. L’amicizia fra Josef Hoffmann e Berta Zuckerkandl portò, ad esempio, al primo grande incarico per la Wiener Werkstätte, il sanatorio di Purkersdorf, ad ovest di Vienna, edificato negli anni 1904-05 per conto del cognato di Berta, l’industriale Victor Zuckerkandl.

Sala da pranzo di Palazzo Stoclet, alle pareti il Fregio di Klimt

L’altro incarico di notevole risonanza fu palazzo Stoclet, il più famoso progetto di Josef Hoffmann, realizzato tra il 1905 e il 1911 nell’hinterland di Bruxelles. A Vienna e in altre città dell’Austria la Wiener Werkstätte costruì o ristrutturò ville, arredandole e decorandole di tutto punto. Si realizzarono negozi e uffici in molte località ed anche il governo austriaco richiese l’intervento dell’azienda. Per eseguire le opere di falegnameria, inizialmente nel 1904, s’impiantò un laboratorio interno, ma ben presto fu necessario commissionare la produzione di mobili ad eccellenti falegnami ed ebanisti come Portois & Fix, Johann Soulek (Palais Stoclet, Haus Ast), Anton Ziprosch e Franz Gloser (Purkersdorf), Anton Herrgesell, Anton Pospisil, Friedrich Otto Schmidt e Johann Niedermoser. In ogni caso, tutti i lavori affidati ai maestri artigiani dovevano rispondere a requisiti di qualità estremamente severi, affinché i prodotti si potessero esporre e commercializzare nei punti vendita della capitale o nelle filiali all’estero: Karlsbad (1909), Marienbad e Zurigo (1916/17), New York (1922), Berlino (1929).

Architetture, arredo e complementi, erano solo una parte della produzione diretta o indiretta della Wiener Werkstatte. Al suo interno, per fare ancora un esempio, non si stampavano libri, ma si graficizzavano e si seguivano nel loro percorso editoriale e finalmente, quando erano pronti, i sedicesimi venivano rilegati in marocchino con la massima cura. Era utilizzato soltanto il cuoio migliore, dando vita a creazioni eleganti e resistenti, ma dal costo elevato. Erano libri per bibliofili, dalle copertine pregiate, trattate o intarsiate con oro, eseguite su disegni personalizzati da Hoffmann, da Moser, da Czeschka o da qualche altro artista specificamente richiesto dai committenti. A dirigere la legatoria era un maestro rilegatore di nome Beitel. In un differente laboratorio, altri maestri artigiani erano invece indaffarati nella realizzazione di borse da donna in pelle o astucci per oggetti di valore, anche questi fatti esclusivamente a mano. L’ultimo ideato fu il reparto in cui foggiare le “mode”, così erano chiamate tutte quelle creazioni di lusso con ruolo sempre crescente nei gusti raffinati dell’alta società, come nel caso di abiti femminili e cappelli. Il settore – affidato a Edward Wimmer, originale artista dalla fervida fantasia, assistito dalla sarta Marianne Zeis – produsse creazioni moderne in seta e nei migliori tessuti, su modelli ideati dagli stilisti. La Wiener Werkstätte s’impose, dunque, come sinonimo di eleganza e raffinatezza. Una infinità di prodotti che esprimevano un savoir-faire unico. Un patrimonio di composizioni innovative, realizzate con dedizione. Un impegno dinamico, per dare spazio alla modernità.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Gustav Klimt – “Uno stile nuovo conquistato combattendo”

di Sergio Bertolami

16 – Dopo la Künstler-Compagnie il “periodo d’oro”.

Klimt non amava viaggiare, racconta il suo biografo Christian M. Nebehay. Gli bastava allontanarsi da casa per essere colto da un’eccessiva nostalgia. Adorava, però, l’Italia e ci venne ripetutamente, ma, per esempio, una volta rifiutò un lungo soggiorno a Firenze, proposto dallo scultore Max Klinger, che l’anno precedente aveva acquistato Villa Romana, immersa in 15.000 mq di parco. Su iniziativa del mecenate Harry Graf Kessler, Klinger aveva costituito nel 1903 – insieme ad Alfred Lichtwark , Max Liebermann , Lovis Corinth , Max Slevogt, Walter Leistikow – la Deutsche Künstlerbund, un’associazione di artisti tedeschi, con lo scopo di raggruppare le varie correnti sovranazionali in cui erano sfaccettate le Secessioni, così da promuoverne l’attività. Con i fondi messi a disposizione, fu acquistata questa bella villa neoclassica di 40 stanze, alla periferia di Firenze, per renderla disponibile come residenza ed atelier. Permetteva agli artisti vincitori dell’omonimo Premio Villa Romana (tutt’ora esistente) di soggiornare a Firenze, fruendo altresì di una borsa di studio. Da allora, ogni anno la villa ospitò, fra gli altri, Georg Kolbe (1905), Max Beckmann (1906), Käthe Kollwitz (1906) e Ernst Barlach (1908). Quattro vincitori del Premio l’anno, per un periodo di dieci mesi. Gustav Klimt, nel 1906, nonostante tutto rifiutò. Probabilmente non fu solo la nostalgia a pesare sull’animo dell’artista. Forse lo condizionò anche lo scioglimento della Künstler-Compagnie – lo studio di arti decorative aperto col fratello Ernst e Franz Matsch – e la malattia nervosa che seguì alle violente critiche che sfociarono nel rifiuto dei suoi dipinti allegorici per il soffitto dell’aula magna dell’Università di Vienna. Dipinti giudicati troppo carichi di pessimismo e di simbolismo erotico, per non dire addirittura pornografici. Klimt non parlava molto, ma era solito rispondere alle domande: «Chi vuole sapere di più su di me, cioè sull’artista, l’unico che vale la pena di conoscere, osservi attentamente i miei dipinti per rintracciarvi chi sono e cosa voglio». Tanti putiferi portarono comunque il pittore ad una reazione estrema: non accettare più commissioni pubbliche e lavorare soltanto per una ricca élite di committenti privati. Questa decisione incise sulla sua espressività artistica, perché i successivi dipinti murali furono caratterizzati da un disegno lineare e dall’uso audace di motivi decorativi, piatti nel colore. Il fregio di Beethoven (1902) e i mosaici per la sala da pranzo di palazzo Stoclet a Bruxelles (1905-1909), furono l’espressione diretta di questa nuova tendenza dell’artista.

L’ingresso a Villa Romana, 1914 (Studio Lois Held)

Incurante delle critiche al suo lavoro per l’Università, Klimt portò a termine in contemporanea anche il Fregio di Beethoven, realizzato per la 14ª mostra della Secessione viennese, che si svolse dal 15 aprile al 27 giugno del 1902. Fu allestita negli spazi espositivi del Palazzo della Secessione, trasformato in un tempio laico dedicato al grande compositore tedesco. Qui ebbe modo di lavorare con Max Klinger, che per il centro della grande sala espositiva aveva effigiato Beethoven, componendo una scultura in marmi policromi, alabastro, bronzo e avorio. Il fregio dipinto da Klimt, che adornava il fondo della sala adiacente, dal momento che era destinato soltanto alla mostra, fu realizzato direttamente sulle pareti. In fatto di allestimenti, l’artista aveva fatto esperienza con la Künstler-Compagnie, avendo decorato tramezzi, soffitti, sipari, con le tecniche artigianali che la tradizione consentiva. Per ottenere gli effetti visivi desiderati, sulla superficie pittorica a fresco, ricoperta da colori alla caseina, inserì frammenti di specchi, vetri policromi, pietre dure, madreperla, e persino chiodi da tappezziere. Stese, perciò, un intonaco su di un cannucciato di due metri d’altezza e ben ventiquattro di lunghezza. Una fortuna, perché dopo la mostra, il dipinto suddiviso in sette pannelli poté essere staccato, per entrare a far parte prima della collezione dell’industriale della birra Carl Reininghaus, quindi dal 1915 in quella di August Lederer, la seconda famiglia più ricca di Vienna, dopo i Rothschild, con un patrimonio accresciuto grazie a distillerie e amido. L’opera di Klimt rileggeva l’ultimo movimento della nona sinfonia di Beethoven e, con una visione simbolista, svolgeva a nastro il tema dell’eterna lotta tra bene e male alla ricerca della felicità. Le tre scene allegoriche rappresentavano il trionfo dell’arte sulle avversità – perché solo le arti conducono in un regno ideale – ma in modo del tutto differente, perché la tridimensionalità della pittura realizzata per i tre dipinti di Filosofia, Medicina e Giurisprudenza, non esisteva più. Klimt l’aveva sostituita con una pittura lineare e bidimensionale, un astratto richiamo all’arte vascolare greca e alla pittura egizia.

L’Omaggio a Beethoven, nell’angolo alto il Fregio di Gustav Klimt. Nella sala attigua la scultura di Max Klinger
Josef Hoffmann, pianta dell’allestimento dell’Omaggio a Beethoven (1902). Nella sala centrale la statua di Max Klinger, in quella di sinistra il Fregio di Gustav Klimt.

Klimt si richiamò al tema del fregio di Beethoven anche per le tre scene dipinte nella sala da pranzo di palazzo Stoclet. Nel 1904 l’architetto Joseph Hoffmann era stato incaricato dal ricco industriale Adolphe Stoclet di erigere l’imponente e sontuoso palazzo dell’Avenue de Tervueren a Bruxelles (dal 2009 inserito nel patrimonio mondiale dell’UNESCO). Stoclet, ingegnere, finanziere, collezionista d’arte, aveva dato a Hoffmann ampio mandato di edificare la propria villa di famiglia. Senza limiti di spesa. Dimostrazione questa, che spesso è l’apertura mentale e la disponibilità economica della committenza a far mettere in luce le qualità degli artefici; anche se vale il caso contrario, perché una ricca committenza (quella illuminata) non si rivolgerebbe mai a dei mediocri. Nel progetto Hoffmann interessò molti artisti e artigiani viennesi, con l’obiettivo di realizzare quella Gesamtkunstwerk, cioè l’opera d’arte totale, tanto teorizzata e divenuta, con questa opportunità unica nel suo genere, finalmente possibile a realizzarsi. Un’opera in cui arti applicate e figurative si fondevano con la spazialità propria dell’architettura vera, connessa al binomio invaso-involucro. Hoffmann eseguì il progetto in accordo con il committente. Alla Wiener Werkstätte fu affidata la progettazione artistica e Fritz Waerndorfer convenne con i soci fondatori dell’importante laboratorio d’arte – Koloman Moser e lo stesso Josef Hoffmann – di affidare a Gustav Klimt, il disegno di un fregio spettacolare che avrebbe decorato la sala da pranzo del palazzo. L’intervento previde l’apporto di molti artigiani e artisti qualificati come Michael Powolny, Franz Metzner, Bertold Löffler. In particolar modo, il laboratorio di mosaico della Wiener Mosaic-Werkstatte, diretto a Leopold Forstner, mise in opera gli esecutivi di Klimt, impegnando specialisti in metallo e oreficeria, ceramica e smalto. È probabile che Klimt abbia redatto nel 1905 il primo progetto, immaginando una scena paradisiaca con viticci d’oro, fiori, uccelli e personaggi. Ma è altrettanto probabile che, nel 1908, l’artista abbia richiesto significative modifiche di progetto prima dell’esecuzione del mosaico definitivo. L’opera realizzata a Vienna fu installata a Bruxelles nel 1911 alla presenza di Klimt. Il fregio si trova nella grande sala da pranzo di 6×12 metri, quindi un perfetto rapporto dimensionale di uno a due. Qui nulla è lasciato al caso e ancora oggi tutto è conservato com’era allora. Si accede da due porte contrapposte sui lati lunghi, sia dalla hall che dalla sala colazioni. Al centro c’è un tavolo da pranzo allungato e scuro, contornato da rigide sedie rivestite in pelle nera e oro goffrato. Il pavimento è concepito con piastrelle nere, bianche e giallastre, a scacchiera. Un grande tappeto decorato con ornamenti color oro copre l’area sotto il tavolo. Nei due lati lunghi sono disposti i buffet in marmo nero Portovenere e, sopra di questi, sono incastonati i due fregi musivi di Klimt. Ciascuno, alto due metri e lungo sette, è caratterizzato da una rappresentazione figurativa: da un lato una donna sola, dall’altro una coppia stretta in un abbraccio. Sebbene in molte pubblicazioni siano denominate Aspettativa e Realizzazione, lo stesso Gustav Klimt ha definito le due scene come Ballerina e Abbraccio. Il motivo fondamentale del fregio è un grande albero stilizzato con ramificazioni a spirale. Simboli della ciclicità della vita, di una coscienza che si evolve, progredisce, matura, ma riprodotta al contrario di una coscienza che degenera fino a fermarsi.

Fregio di palazzo Stoclet, pannello di sinistra, L’aspettativa (La ballerina) da Wikipedia
Fregio di palazzo Stoclet, pannello di destra, La realizzazione (L’abbraccio) da Wikipedia

Nell’agosto 1903, Klimt descriveva, in una lettera indirizzata a una sua amica, il programma delle sue giornate estive che ogni anno trascorreva all’Attersee, l’incantevole specchio d’acqua in Alta Austria: «È molto semplice e piuttosto regolare. Alla mattina presto, in genere alle 6, poco prima o poco dopo, mi alzo; se il tempo è bello, vado nel bosco vicino, lì dipingo un boschetto di faggi (al sole) mescolati a qualche conifera, vado avanti così fino alle 8, poi si fa colazione, e poi si fa un bagno nel lago, con ogni cautela; poi dipingo ancora un po’, un paesaggio lacustre col sole, oppure se il tempo è brutto un paesaggio ripreso dalla finestra della mia camera. A volte al mattino, anziché dipingere, studio i miei libri giapponesi all’aria aperta. Si fa mezzogiorno, dopo mangiato un pisolino o una lettura fino all’ora della merenda, e prima o dopo la merenda un secondo bagno nel lago, non sempre ma spesso. Dopo la merenda nuovamente dipingo (un grande pioppo al tramonto sotto l’infuriare di un temporale); oppure, a volte, faccio una partita a bocce in un posticino nelle vicinanze, ma di rado; cala il tramonto, si cena, e poi a letto presto, e poi di nuovo il giorno dopo giù dal letto di buon’ora. Qualche volta in questo programma riesco a infilare anche una rematina, per rinvigorire un po’ i muscoli». Qualche volta invece riesce ad “infilare” anche qualche viaggio all’estero. In Italia ad esempio. Proprio nella primavera del 1903 Klimt e compie un viaggio a Venezia, Firenze e Ravenna. Visitò due volte Ravenna, nello stesso anno, perché a primavera rimase fortemente colpito dai mosaici bizantini osservati in San Vitale. Rimase impressionato dall’uso semplificato dello spazio bidimensionale, da quegli sfondi dietro maestosi personaggi come Teodora, Giustiniano e la loro corte. Immagini rarefatte, irreali, restituite dalle superfici brillanti e dorate. Ecco perché a dicembre decise di tornare: voleva studiare in modo approfondito la tecnica musiva, e soprattutto le potenzialità espressive dell’oro. Prendono vita, così, alcuni dei capolavori noti a tutti, quando si parla di Klimt. Si identificano col cosiddetto “periodo d’oro”. Si era già servito di questo prezioso materiale in opere precedenti, d’altra parte per un’artista, figlio di un orafo incisore, l’oro è il ricordo dell’infanzia. Aveva adoperato l’oro, ad esempio nelle due versioni dell’Allegoria della musica (1895 e 1898) o in Pallade Athena (1898), in Nuda Veritas (1899) e in Giuditta I meglio noto col titolo di Salomè (1901), e nuovamente nel Fregio di Beethoven (1902). Dopo il viaggio in Italia Klimt, tuttavia, utilizzò l’oro in maniera sistematica, non solo applicato in foglia, ma anche nella struttura compositiva a incastro di tessere preziose, cha tanto ricordano i mosaici di San Marco a Venezia. Hanno lo scopo di separare i personaggi rappresentati da qualsiasi legame con il contesto oggettivo e proiettarli nella dimensione poetica.

Scrive Ludwig Hevesi: «Ero tornato dalla Sicilia solo da quattro giorni e avevo ancora addosso tutta l’ebbrezza dei mosaici […] questo mi venne in mente mentre ero davanti al dipinto di Klimt. Questo mi illuminò con il suo oro […] Uno stile nuovo conquistato combattendo, dopo tutte le orge pittoriche dell’ultimo decennio. Una forma e un colore più solenni e religiosi». In verità, di religioso i ritratti di Klimt hanno poco. Non di certo Pesci d’oro (1901-1902) che, per lo scalpore suscitato, Klimt sarcasticamente pensò di dedicare quelle nudità Ai miei critici. Neppure le due versioni di Giuditta: la prima con la testa di Oloferne (1901) esaltazione della femme fatale, ammaliatrice e vendicativa; la seconda (1909) dove più che la testa del decapitato sono messi in mostra i seni nudi della seduttrice. Non certamente Il bacio (1907-1908) dove i due innamorati sono ricoperti di simboli allusivi al sesso. Né tantomeno in Danae (1907-1908) fecondata nel sonno dalla pioggia d’oro di Zeus. Si capirà che la libertà provocatoria con la quale Klimt trattava i suoi soggetti non poteva che accendere polemiche. Il suo messaggio anticonformista era affidato all’eros, rappresentato da una immagine femminile depositaria della vita e della bellezza. Basti guardare alle Tre età della vita (1905). In primo piano, l’artista raffigurò una delicatissima scena di maternità: la bambina assopita serena tra le braccia della mamma, anche lei con un’espressione di felicità interiore. Ma è la terza figura della nonna, con il corpo marcato dagli anni, a restituire la sensazione del tempo che trascorre. Il dipinto vinse il premio all’Esposizione d’Arte Internazionale di Roma del 1911 e dall’anno successivo è ammirato nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Manco a dirlo, anche questo dipinto destò clamore.

Gustav Klimt, Ritratto di Adele Bloch-Bauer I, 1907, 138×138 cm, Neue Galerie, New York

Non fu esente da critiche neppure un altro dipinto mirabile, Il Ritratto di Adele Bloch-Bauer (1907). È oggi uno dei quadri più preziosi al mondo, alla stregua di una moderna Monna Lisa. La donna, figlia di un ricco banchiere e moglie del proprietario di uno zuccherificio, è completamente immersa in uno sfondo decorativo, bidimensionale. Un quadro tutto giocato sul geometrismo, a cominciare dal perfetto formato quadrato della tela. Il contrasto fra eros e thanatos, che ne emana, è espresso simbolisticamente dalle mani intrecciate della protagonista, quasi a tentare di fermare la caducità della vita. Quanti occhi hanno guardato lo splendore giovanile di questa donna? Occhi rappresentati nel tessuto della veste, che si trasforma in uno spettacolare turbinio di forme geometriche, in combinazione fra loro, sullo sfondo dorato, nel quale, ancora una volta, campeggia la spirale dell’albero della vita. Beffarde furono le recensioni di stampa. L’avere impiegato, da parte di Klimt, quella profusione di lamine d’oro e argento, portò a coniare un graffiante calembour: «Mehr Blech als Bloch», come dire “Più lamiera che donna”, gioco di parole tra Blech (foglio di lamiera) e Bloch, il cognome dell’eterea Adele nel dipinto raffigurata.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay