L’Associazione degli artisti visivi della Secessione di Monaco – 1892

di Sergio Bertolami

11 – Le Secessioni di Monaco e Dresda.

Come è vero che il 1892 in Germania è segnato dal cosiddetto “Caso Munch”, che porterà sei anni dopo a un movimento berlinese orientato al rinnovamento del gusto estetico, così è altrettanto vero che la prima secessione ebbe luogo a Monaco nel medesimo anno. Dall’inizio del secolo, Monaco era diventata una delle principali metropoli d’arte in Germania e nel mondo. Questo grazie alla edificazione della Glyptothek, con la sua collezione di sculture antiche, e all’attrazione dei suoi più importanti musei, l’Alte Pinakothek e la Neue Pinakothek. Nell’Accademia di Belle Arti, ricoprivano cattedre prestigiose professori come Karl Theodor Piloty, Wilhelm Lindenschmit e Wilhelm Diez, e questo rappresentava un grande richiamo non solo per gli artisti tedeschi, ma anche per numerosi giovani stranieri. Sei imponenti Saloni per esposizioni erano stati predisposti, tra il 1858 e il 1888, nella sede del Glaspalast, di cui ben quattro a carattere internazionale. Questo spettacolare Palazzo di vetro era stato eretto nel 1854 da Massimiliano II re di Baviera sul modello del Crystal Palace di Londra. Dal 1889 il palazzo fu destinato quasi esclusivamente alle mostre d’arte, anche a fini commerciali, costituendo così un importante centro della vita sociale, artistica e culturale della città. In altre parole, Monaco splendeva. La definizione è di Thomas Mann in Gladius Dei, novella ambientata in una luminosa giornata di giugno a Monaco di Baviera: «Il cielo è di seta azzurra, l’arte è in fiore, l’arte ha il controllo, l’arte stende sulla città il suo scettro cinto di rose e sorride».

Planimetria del Palazzo di vetro (Glaspalast) per le Esposizioni ufficiali di Monaco

Nonostante tutto questo, il panorama artistico era dominato dalla cultura conservatrice della Munich Artists’ Cooperative (MKG) e dei suoi patrocinatori nel governo bavarese. La situazione divenne problematica quando nel 1891 il principe reggente Luitpold di Baviera istituì la Fondazione Prinzregent-Luitpold per la promozione dell’arte, delle arti applicate e dei mestieri, indirizzata all’impulso della pittura storica tradizionale sotto l’egida ufficiale. Se da una parte la Fondazione portava a un maggiore livello qualitativo i lavori dell’Accademia di Belle Arti, dall’altra creava contrarietà la rigida posizione contro le tendenze che avevano come riferimento l’Impressionismo e le sue evoluzioni artistiche. Tale politica conformista, considerata da molti ormai arretrata, determinò una serie di polemiche interne all’associazione degli artisti, alle quali si aggiunse un ulteriore fattore destabilizzante: il completo fallimento finanziario della mostra annuale del 1888 al Glaspalast. L’aspro dibattito che ne scaturì, su responsabilità e contenuti, attrasse persino l’attenzione del Ministero per la Scienza e l’Arte. In opposizione alle concezioni conservatrici dell’associazione ufficiale, 96 membri annunciarono, pertanto, di dissociarsi per fondare, il 4 aprile 1892, la Verein bildender Künstler Münchens A.V. associazione indipendente di “artisti visivi”. Non era un caso del tutto nuovo. In Renania, nel corso dell’anno precedente, era stata costituita la Libera Associazione degli artisti di Düsseldorf, formata da una cinquantina di componenti alla ricerca di un proprio spazio espositivo: durò poco meno di una decina d’anni. In Baviera, al contrario, grazie all’efficiente organizzazione monacense l’evento suscitò una vera e propria rivoluzione.

Catalogo della Esposizione di Monaco del 1893
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A testimoniarlo fu il fatto che dopo appena qualche mese si pensò bene di modificare il nome in Verein bildender Künstler Münchens A.V. Secession. L’aggiunta del termine Secessione, in verità, rese ancora più evidente che la decisione separatista era irreversibile. La denominazione completa comparve l’anno successivo quale intestazione del catalogo della prima mostra ufficiale e presto il movimento divenne popolare sotto la forma abbreviata di Munich Secession ossia Secessione di Monaco. La nuova associazione operò da subito come una cooperativa, costituita per garantire gli interessi economici e gli obiettivi artistici dei propri componenti. Non potendo più contare sugli aiuti del governo, per allargare il raggio d’influenza si interessò a promuovere contatti sociali, che fin dall’inizio riscossero grande favore fra gli investitori, galvanizzati dalle idee audaci e innovative, così come ottennero l’appoggio dei galleristi. Sulle pagine dei principali quotidiani le recensioni furono subito favorevoli. D’altra parte, i nomi dei partecipanti non mancavano di richiamare l’attenzione. I principali portavoce di questo nuovo movimento d’avanguardia furono l’editore Georg Hirth e lo scrittore Fritz von Ostini. Quando nel 1896 Hirth fondò la rivista d’arte e letteratura Jugend, Ostini ne divenne il capo redattore. Tra i membri più attivi del movimento spiccarono il critico d’arte e collezionista Wilhelm Uhde e il pittore Franz von Stuck, ai quali si unirono artisti come Bruno Piglhein, Lovis Corinth, Peter Hahn, Hugo von Habermann, Peter Behrens, Adolph Hölzl, Max Liebermann, Hans Olde, Leo Samberger, Tony Stadler.

Ingresso al Palazzo delle Esposizioni

In breve, la Secessione di Monaco si oppose al provincialismo e alle opere d’arte concepite per compiacere le masse. Aveva lo scopo di allestire mostre più piccole, ma di qualità superiore, con un ampio spazio riservato agli artisti stranieri. Il primo grande evento internazionale fu la partecipazione l’anno successivo, il 1893, alla Fiera Mondiale di Chicago, la World’s Columbian Exposition, in occasione delle celebrazioni per i 400° anni di Cristoforo Colombo, scopritore del Nuovo Mondo nel 1492. Sin dall’inizio, tuttavia, si comprese che l’indipendenza dalla cultura ufficiale comportava una serie di complicazioni. Ad esempio, era difficile trovare un edificio adatto ad ospitare mostre, non avendo più disponibili le ampie sale del Glaspalast. Al contrario, molte città erano propense a concedere i propri spazi espositivi e persino un appropriato sostegno finanziario. Fra queste Francoforte, pronta a versare 500.000 marchi d’oro se la nuova associazione avesse deciso di trasferirvisi. Nel 1893 si preferì, invece, allestire una mostra nella galleria d’arte della Stazione Lehrter a Berlino. La stampa commentò: «Qui puoi vedere l’arte fresca, vitale e moderna…Si può sperare che la situazione artistica di Berlino subisca un miglioramento radicale… I secessionisti di Monaco sono una grande risorsa per Berlino». Con il sostegno finanziario dell’editore Hirth e di altri apprezzabili imprenditori come sponsor, la prima mostra d’arte internazionale della Secessione vide luce il 16 luglio 1893 a Monaco di Baviera: 297 artisti esposero più di 876 opere.

Planimetria dell’esposizione di Monaco del 1893

L’eccezionalità fu che la manifestazione inaugurava anche l’edificio appositamente costruito su Prinzregentenstrasse e all’angolo con Pilotystrasse. La risposta del pubblico fu ottimale. Raccontano le cronache che la prima domenica l’affluenza fu di oltre 4000 visitatori. Il gradimento confermava la qualità dell’esposizione e le giuste ragioni degli organizzatori, che avevano raccolto opere di artisti di varie correnti e di varie nazionalità. La manifestazione fu così indicativa che nel 1898 Pablo Picasso esaltò con entusiasmo questa diversità della mostra di Monaco e si rammaricò, al contrario, della disputa tra i parigini sulla varietà degli stili non conformi alla visione unica dell’accademia.

Manifesto di Franz von Stuck per la Settima Esposizione Internazionale d’Arte a Monaco di Baviera, 1897

Il termine Secession fu ripreso ben presto anche da parte di altri gruppi progressisti, fuori dalla città di Monaco. Secession divenne rapidamente sinonimo di affrancazione dell’arte, a tutti gli effetti, attraverso una rivoluzione culturale che contemplava non solo pittura, scultura, architettura, ma in uguale misura arti applicate, musica e letteratura. In brevissimo tempo seguì una nuova separazione, la Secessione di Dresda. All’opposto di quella di Monaco non fu, però, una decisione irreversibile. Il gruppo di artisti della Dresdner Secession fu costituito nel 1893 da alcuni membri della colonia di Goppeln, uno stuolo di pittori che si erano dedicati alla pittura all’aperto. A influenzarli fu Carl Bantzer, che ne assunse la guida. Anche questi secessionisti erano concordi in critiche negative nei confronti dell’accademismo. Il loro orientamento era chiaramente rivolto verso la pittura en plein air praticata dagli impressionisti francesi. Non durò più di tre anni. Quando Bantzer nel 1896 assunse una cattedra all’Accademia (Hochschule für Bildende Künste) di Dresda, la Secessione perse il suo spirito critico e si sciolse. Gotthardt Kuehl, che ne aveva fatto parte, nel 1905 – esattamente vent’anni dopo il suo incarico d’insegnamento – tentò di nuovo l’esperienza, fondando il circolo Die Elbier (L’Elba), insieme ad un nutrito gruppo di studenti del corso di pittura di genere all’Accademia d’arte di Dresda. In quanto pioniere dell’impressionismo in Germania, arrivò tuttavia in ritardo. Nel 1905 proprio a Dresda nascerà Die Brücke (Il Ponte) e con questo gruppo di artisti dell’avanguardia tedesca da quel momento in poi si parlerà ormai di Espressionismo tedesco.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Secessioni – “A ogni tempo la sua arte, all’arte la sua libertà”

di Sergio Bertolami

10 – L’opposizione alle concezioni conservatrici.

Il termine, scelto per definire la volontà di separarsi dai canoni tradizionali e conservatori, fu quello di Secessione. Termine che rimase circoscritto principalmente ai paesi di lingua tedesca e che identificò uno strappo insanabile. Sembra che sia stato usato per la prima volta da Georg Hirth, giornalista ed editore di Jugend (Gioventù), la rivista che darà nome alla nuova corrente artistica Jugendstil. Il “settimanale illustrato di arte e vita” Jugend nacque a Monaco di Baviera nel 1896. Non fu, però, l’unica rivista pubblicata con lo scopo di favorire l’arte moderna. In Inghilterra si cominciò con The Studio (Londra 1893), in Germania oltre a Jugend si pubblicarono anche Pan (Berlino 1894) Simplicissimus (Monaco 1896), Dekorative Kunst (Stoccarda 1897); in Austria Ver sacrum (Vienna 1898). Tutto ciò, a dimostrazione che non si potevano sostenere nuove idee senza specifici mezzi di informazione e diffusione. Soprattutto perché occorreva far comprendere che tali scissioni artistiche non erano il frutto di uno stile omogeneo, né di un programma estetico definito, quanto l’effetto di una opposizione da parte degli artisti più giovani, culturalmente schiacciati dal pensiero corrente.

Otto Eckmann, Jugend n. 14, 4 aprile 1896

Esempi evidenti provenivano, come s’è detto, da Parigi dove era stata istituita la Société nationale des Beaux arts (tutt’ora operante) e da Bruxelles dove le nuove idee erano sostenute da Les XX. Negli ultimi anni dell’Ottocento, in Francia l’impressionismo era stato finalmente accettato da pubblico e stampa e non creava più occasione di scandalo, anche se chi patrocinava e difendeva l’Arte accademica continuava a sollevare le sue critiche. Come accadde nel 1884, quando all’Ecole des Beaux-Arts vennero esposte le tele di Manet, ad un anno dalla morte, per interessamento di Antonin Proust, già ministro della Cultura nel governo di Léon Gambetta. Manet, che dell’Impressionismo era stato un precursore, morto prematuramente non passerà il secolo, come invece accadrà per i più longevi Pissarro, Renoir, Degas, che proseguiranno il proprio impegno artistico anche nel nuovo secolo. Cézanne compirà la sua ricerca solitaria nel ritiro di Aix-en-Provence, documentata al Salon d’Automne di Parigi nel 1907 con una retrospettiva a lui dedicata a qualche mese dalla scomparsa. Monet trascorrerà gli ultimi quarant’anni a Giverny, fino al 1926, dipingendo ninfee d’acqua anticipatrici di soluzioni pittoriche al tempo inimmaginabili.

Manifesto del Salon d’Automne 1907

Pur tuttavia, in molte parti d’Europa, architettura, pittura, scultura – identificate ancora come le tre principali arti del disegno – continuavano a legarsi ai modelli passatisti eternati dalle accademie. Con la conseguenza che a tali modelli si atteneva espressamente anche l’estetica ufficiale di Stato. «L’arte – commentava Edgar Degas – non è ciò che vedi, ma ciò che fai vedere agli altri». Questa arte, appositamente orientata ad esaltare gli ideali del sistema di governo, valeva specialmente nei paesi di cultura tedesca. Nel 1893 il Kaiser Guglielmo II – salito al trono cinque anni prima a soli 29 anni, quindi un giovane, ma dalle idee conservatrici – riferendosi alle poetiche impressioniste, affermava: «I pittori en plein air avranno, da me, vita difficile: li terrò sotto la mia frusta». La cultura ufficiale dell’epoca, difatti, era ancorata a un naturalismo di maniera, enfatico e monumentalistico, che rimarrà insito nella cultura germanica anche a seguire, almeno fino alla metà degli anni Trenta del Novecento quando rifiorirà l’ideologia encomiastica e nazionalista, che si scaglierà contro la nuova arte “degenerata” (entartete Kunst), la medesima arte di cui a larghi tratti sto delineando le fasi iniziali. In modo netto e deciso le libere associazioni di artisti dettero, perciò, vita a movimenti secessionisti, che in verità non potevano contare di proporre un nuovo stile, e non ne avevano neppure l’intenzione. Piuttosto miravano a un dibattito intorno ad espressioni artistiche che fossero al passo coi tempi, nel tentativo di schiudere un panorama culturale restio alle novità che in quegli anni stavano investendo l’intera Europa: dall’Impressionismo alle sue molteplici evoluzioni, fino al Simbolismo. Tali idee rapidamente andavano conquistando il favore di molti critici e oltretutto di sostenitori finanziari. Questo perché ciò che spesso si dimentica è che il concetto di arte non può ridursi soltanto agli artisti, ma va allargato, considerando la sua intera filiera: dai mecenati (pubblici o privati) agli investitori, dai galleristi ai collezionisti.

Joseph Maria Olbrich, Palazzo della Secessione, Vienna

Nei paesi di lingua latina il secessionismo non ebbe alcun riscontro, salvo certuni esperimenti per trapiantarlo in Francia. Fu il caso della galleria L’Art Nouveau aperta nel 1895 a Parigi da Samuel Bing, mercante di Amburgo naturalizzato francese. Grazie a questa iniziativa, e alla sua rivista Le Japon artistique, lo Jugendstil ispirò il nome al movimento che in Francia sarà appunto chiamato Art Nouveau. Ciò vale anche per una simile attività commerciale, La Maison Moderne, introdotta dal critico Julius Meier-Grafe. Al contrario riscossero maggiore successo gli esperimenti che gli esponenti ragguardevoli della nuova tendenza fecero in Germania e Austria. Sono artisti come Otto Eckmann, ricordato per l’invenzione di un nuovo carattere tipografico o come disegnatore di apprezzate copertine di riviste; oppure Hans Christiansen, che aprì un atelier per la progettazione di mobili e oggetti d’arte; o ancora l’architetto Bernhard Pankok, fondatore dei Laboratori uniti per l’arte nell’artigianato. Laboratori che ritroveremo in Austria con l’attività di Koloman Moser, designer e decoratore, che insieme all’architetto Josef Hoffmann costituirà a Vienna la Wiener Werkstätte, l’officina per l’arte e il design, le cui progettazioni rimangono esemplari nella storia dell’arte del primo Novecento. Senza dimenticare un altro architetto, Josef Olbrich, che nel 1898 edificò proprio la casa d’esposizione della secessione viennese. Sull’entrata principale fu inciso il motto: Der Zeit ihre Kunst, Der kunst ihre Freiheit (A ogni tempo la sua arte, all’arte la sua libertà). Destava stupore il coronamento dell’edificio per una singolare cupola intrecciata da foglie d’alloro in bronzo dorato, appellata dai detrattori Krauthappell ossia “Testa di cavolo”. E dire che la costruzione del palazzo stesso è testimonianza della partecipazione viscerale degli intellettuali dell’epoca, giacché il lotto edificabile fu donato dall’industriale e mecenate Carl Wittgenstein, padre del filosofo Ludwing Wittgenstein.

Koloman Moser, progetto originale per l’apertura dello showroom Wiener Werkstätte (1905)

Il primo gruppo di artisti tedeschi che si riunirono sotto la denominazione di Secessione fu costituito a Monaco nel 1892, e si distinse soprattutto per l’opera di Franz von Stuck. Fu seguito dal movimento di Berlino del 1899, composto da artisti come Max Liebermann, Lovis Corinth e Walter Leistikow. Il più famoso dei gruppi si formò, tuttavia, a Vienna nel 1897, sotto la spinta di Gustav Klimt, il quale preferì uno stile altamente ornamentale che si riverberò per tutta l’Europa. Anche nel suo caso, i dipinti proposti al tempo per il soffitto dell’Auditorium dell’Università di Vienna furono respinti come scandalosi a causa del loro simbolismo erotico. Di tutto questo avremo modo di parlare nelle prossime pagine.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

In Böcklin e Bracht dei luoghi tranquilli dove ricordare o dimenticare

di Sergio Bertolami

9 – Il simbolismo in Germania: Böcklin e Bracht.

Le associazioni culturali di questo periodo affondano le proprie radici nelle esperienze trascorse. Ovverosia, da una parte, nei valori e negli ideali del Movimento romantico, che aveva come punto nodale la vita e i sentimenti dell’umanità. Dall’altra, a più forte ragione, nel Simbolismo, incentrato su tutti quegli elementi immateriali, irrazionali ed emozionali che indiscutibilmente coinvolgono l’esistenza. Ecco allora che non poteva essere dimenticata la lezione di autori importanti, come lo svizzero Heinrich Füssli, l’inglese William Blake, il tedesco Caspar David Friedrich, il francese Jean-Auguste-Dominique Ingres. Le nuove manifestazioni dell’arte non rigettavano, infatti, il passato romantico nelle sue diverse estrazioni nazionali, ma lo modificavano. Così come John Ruskin è testimone dell’insegnamento dei Preraffaelliti, che non rimane affatto circoscritto alla cultura vittoriana, ma è alla base di molte manifestazioni del Simbolismo e dell’Art Nouveau, reali movimenti di transizione dal Tardo romanticismo al nascente Decadentismo.
Anche gli artisti tedeschi continuavano la tradizione del Grand Tour; viaggiavano cioè per portare a perfezione il proprio sapere non solo artistico, ma anche culturale e politico, per maturare esperienze dirette e non soltanto teoriche. Venivano soprattutto in Italia, lo vedremo prossimamente con l’austriaco Gustav Klimt, ma per ora soffermiamoci sullo svizzero Arnold Böcklin.

Arnold Böcklin, Autoritratto con la Morte che suona il violino, 1872, Alte Nationalgalerie, Berlino

Inizialmente interessato alla mitologia, negli ultimi vent’anni della sua vita riesce a cogliere le atmosfere del Simbolismo, e le sa combinare sapientemente con gli aneliti classici e con la tradizione romantica tedesca. La maggiore eredità trasmessa è tutta nel suo dipinto più noto, quello che nella prima versione del 1880 (conservato nella collezione d’arte pubblica del Kunstmuseum di Basilea dal 1920) aveva denominato Un luogo tranquillo, ma che presto tutti impareranno a conoscere come Die Toteninsel ovvero L’isola dei morti. Lo ha battezzato così il suo mercante d’arte berlinese Fritz Gurlitt, che fece la fortuna economica del pittore. Böcklin utilizzò subito questo nuovo titolo, annunciando al proprio mecenate Alexander Günther di avere completato l’opera: «L’isola dei morti è pronta, finalmente, e sono convinto che susciterà l’impressione che desidero». Nonostante fosse un quadro fortemente autobiografico, il dipinto divenne una delle opere più famose e indicative del Simbolismo tedesco.

Arnold Böcklin, L’isola dei morti, Versione originale, 1880, Museo d’arte di Basilea

Il quadro fu elaborato dal pittore, tra il 1880 e il 1886, in cinque versioni, tutte diverse per gradazioni di luce e toni di colori. I cinque dipinti mostrano un’isola rocciosa che si erge a picco sul mare, al centro caratterizzata da un gruppo incombente di cipressi neri. Incastonate nelle rocce si scorgono le camere funerarie. Su di una barca, che si accinge ad approdare sull’isola, una figura in piedi accompagna una bara velata e un vogatore, rappresentato inspiegabilmente da una figura femminile. Secondo i critici l’immagine sarebbe frutto di fantasticherie funebri per aver perso un gran numero di figli – chi dice sei, chi dice otto – e per aver temuto lui stesso di morire di tifo o a causa di un ictus. È certo però che il tema romantico (e simbolico) della morte è sempre stato presente nelle sue composizioni. Basti ricordare Autoritratto con la Morte che suona il violino (1872) oppure La peste (1898), che mostra la “Cavalcata della Morte” su di una creatura simile a un pipistrello, divenuto in questi nostri tempi di pandemia fra i dipinti più evocati. Secondo l’autore, l’immagine avrebbe dovuto produrre un tale silenzio che il semplice bussare alla porta dovrebbe ancora oggi fare sussultare lo spettatore. Il silenzio è percepibile nell’immobilità del contesto, rotto solo dallo sciabordio dell’acqua rimossa dalla rematrice. In verità, nelle prime due versioni non erano presenti né bara e né figura ammantata di bianco. Furono aggiunte successivamente. Propose, per l’appunto, la seconda versione del quadro alla vedova Marie Berna che gli chiedeva un’opera “per sognare”. Nell’aprile del 1880 Böcklin in una lettera a lei indirizzata tratteggiava le suggestioni di Un luogo tranquillo dove avrebbe «sognato nel buio mondo delle ombre». Qui si sarebbe potuto percepire leggero «il tiepido alito di vento increspare le onde del mare, in un silenzio solenne e irreale che una sola parola bastava a turbare». Fu dopo le modifiche che il soggetto divenne, dapprima, L’isola delle tombe e, in seguito al suggerimento di Gurlitt, L’isola dei morti.

Il castello Aragonese di Ischia

Chi chiedesse dove si trova quest’isola tenebrosa, stupirebbe a sapere che potrebbe essere stata ispirata sotto il sole di Ischia. Lo ha rivelato lo storico dell’arte svizzero Hans Holenweg, dell’Università di Basilea, fondatore e curatore dell’archivio di Böcklin, aprendo nel 2011 una mostra al palazzo comunale di Fiesole, cittadina toscana dove il pittore si spense nella villa di San Domenico sei anni dopo averla acquistata nel 1895. Come ha spiegato Holenweg, Böcklin aveva visitato Ischia per la prima volta col suo amico Hans von Marées, pittore tedesco. Era il settembre del 1879, a conti fatti appena sei mesi prima di realizzare il dipinto nelle due versioni conservate l’una a Basilea e l’altra a Berlino. Fu lo stesso Böcklin a confidare al suo allievo Friedrich Albert Schmidt che l’idea scaturì dalla vista del castello ischitano di Alfonso d’Aragona. «In effetti – commenta Holenweg – quest’isola presenta notevoli somiglianze con le rocce e le pareti che si ergono sul mare. E poiché in Böcklin la scelta del soggetto nasceva spesso da una suggestione visiva, si può affermare che lo spettacolo di quell’isola rocciosa abbia ispirato in lui la concezione del quadro. Proprio di fronte all’isola con il castello, c’è un cimitero a terrazze addossato alla roccia, con un approdo a riva che sorse nel 1836 durante un’epidemia di colera. Evidentemente a quel tempo i morti venivano trasportati al camposanto anche via mare. Böcklin nel 1879 alloggiò a Villa Drago, nei pressi di questo vecchio cimitero, ora ricoperto di sterpaglie e completamente privo di croci».

Eugen Bracht

Il tema della morte non è certo fra quelli privilegiati nelle sue opere da Eugen Bracht. Anch’egli svizzero come Böcklin, tuttavia, dal 1887 è attratto da paesaggi rocciosi fortemente caricati di significati simbolici. Rive dell’oblio (Gestade der Vergessenheit) e l’Isola dei morti di Arnold Böcklin sono considerate fra le più famose opere del simbolismo tedesco. Se Böcklin ne realizzò cinque versioni, Bracht la stessa opera la moltiplicò per otto, tra il 1889 e il 1916. Cosa accumunava i due pittori? Sicuramente i viaggi in Italia, ma soprattutto la “pittura del pensiero”, come la chiamava Bracht, manifestato attraverso quel sottile simbolismo che i loro dipinti restituivano. Bracht lo esprimeva con la rappresentazione dei fenomeni naturali, con inquietanti paesaggi costieri e rocce selvagge e aspre, col trattamento della luce da poterne leggere risvolti quasi mistici. Molteplici rappresentazioni espressive che riflettevano il talento dell’artista. Un talento che non passò inosservato ad Anton von Werner, direttore dell’Università di Belle Arti di Berlino, che gli offrì di dipingere insieme a lui le parti di paesaggio all’interno de La battaglia di Sedan e parallelamente assumere l’incarico per la cattedra di “pittura di paesaggio” nell’Accademia da lui diretta. Proposte irrinunciabili per nessuno, specialmente per un pittore che sin dall’inizio della sua carriera non era stato ancora baciato dalla fortuna. Bracht, insoddisfatto del proprio lavoro di quegli anni, era alla ricerca di nuove forme d’espressione. Pensava addirittura di lasciare Berlino e trasferirsi a Parigi. Anzi, si racconta che vi avesse mandato sua moglie alla ricerca di un appartamento. Fu allora che Anton von Werner venuto a conoscenza di tali intenzioni, grazie ad un collega pittore che soggiornava nello stesso Hotel della moglie, evitò di non farsi sfuggire il talentoso giovane pittore, offrendogli un posto d’eccezione all’Accademia di Berlino.

Eugen Bracht, Rive dell’oblio, Versione originale, 1889, Hessisches Landesmuseum, Darmstadt

In questi “anni panoramici”, come Bracht era solito chiamarli, iniziò il successo artistico e la sua entusiasmante ascesa sociale. Tuttavia, Bracht non era artista che si rivolgeva al passato, e quando si trovò a vivere l’acceso dibattito tra forze conservatrici e progressiste che si scatenò sulla scena artistica berlinese prese una posizione molto precisa e inaspettata da parte del mondo accademico. Protestò vigorosamente, con altre settanta personalità della cultura, allorché Anton von Werner – che dopotutto era il suo superiore e il suo amico – nel 1892 fece chiudere anticipatamente, dopo appena una settimana, la mostra di Edvard Munch. Per dimostrare in modo inequivocabile le proprie posizioni, rassegnò le dimissioni da tutti gli incarichi ufficiali e onorari. Dimissioni che furono chiaramente rifiutate, considerato che il corso di Bracht era il più frequentato e che i suoi allievi erano spesso vincitori di premi alle mostre d’arte. Lasciò la cattedra di Berlino per trasferirsi a Dresda solo nel 1901, quando cambiò la direzione dell’Accademia. Rifiutò persino un’importante opera pubblica, tanto da scandalizzare lo stesso Kaiser Guglielmo II. Si prese a dire di lui: «Nato col romanticismo, passato attraverso il naturalismo, approdò infine all’impressionismo». La pittura di Stato era, infatti, per lui ormai alle spalle e ora veniva considerato come un rappresentante dell’avanguardia berlinese e uno degli artisti più famosi del tempo. Vita e opere di Bracht potevano leggersi anche nella seconda edizione del libro di Julius Norden, Berliner Künstler-Silhouetten del 1902. Una serie di saggi che tratteggiavano le “silhouette degli artisti berlinesi”.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Edvard Munch: il Fregio della vita con le sue gioie e i suoi dolori

di Sergio Bertolami

8 – Dal “Caso Munch” alla Secessione di Berlino.

Sul tracciato belga di Les XX (il gruppo dei Venti), nasce a Berlino il 5 febbraio 1892 il Vereinigung der XI (l’associazione degli Undici), da un’idea di Max Liebermann e Walter Leistikow. La chiamarono “Libera Associazione per l’Organizzazione di Mostre d’Arte”, perché se il modello imposto dalla pittura accademica doveva essere quello di un Anton von Werner o di un Wilhelm Bleibtreu – rappresentanti di primo piano del guglielminismo artistico, dal nome del Kaiser Guglielmo II – a chi differentemente orientato non rimaneva che istituire spazi alternativi e indipendenti. Non era facile, e la riprova si ebbe al Verein Bildender Künstler, l’associazione degli artisti berlinesi, con la personale di Edvard Munch inaugurata il 5 novembre del 1892 e chiusa in anticipo, per protesta della maggioranza dei soci, il 12 novembre. Una settimana di contrasti per quelle opere definite da artisti, pubblico e stampa “brutte e non finite”; critiche che da un giorno all’altro resero famoso il pittore norvegese. Sulla scia delle polemiche, il mercante d’arte Eduard Schulte propose la medesima mostra a Düsseldorf e a Colonia. A dicembre, poi, fu Munch stesso sempre a Berlino a organizzare una nuova esposizione, questa volta allʼEquitable-Palast, aggiungendo alle opere già esposte il Ritratto di August Strindberg, appena ultimato.

Il Fregio della vita esposto a Berlino

Edvard Munch, è nome conosciuto fra il grande pubblico, e, benché abbia lasciato oltre 1.000 quadri e più di 4.000 disegni, tutti lo ricordano per L’urlo del 1893. Pochissimi sanno, però, che questo dipinto è parte di una serie articolata di opere presentata in prima battuta nella capitale tedesca e intitolata Fregio della vita. Sarà questa sua iniziale mostra a innescare un dibattito talmente acceso da produrre uno scossone inaudito e avviare quella rimasta nella storia come la Secessione di Berlino. Il vento di un’arte libera e originale, distaccata dalle istituzioni accademiche e dai centri espositivi ufficiali, si diffonderà prima a Monaco nel 1892, poi a Vienna nel 1896, e infine a Berlino nel 1898. Una scissione che espanderà i suoi effetti in molteplici campi della cultura. Sarà, infatti, appoggiata dagli intellettuali più avanzati della Mitteleuropa e del Nord: dallo storico dell’arte Meier-Graefe (tedesco), dal poeta Przybyszewski (polacco), da drammaturghi come Strindberg (svedese) o Ibsen (norvegese), filosofi come Kierkegaard (danese), Schopenhauer e Nietzsche (tedeschi).
«Non mi sono mai divertito così tanto, è incredibile quanto una cosa innocente come un dipinto possa creare un simile trambusto». È il commento sarcastico di Edvard Munch, che guardava al Fregio della vita, come a una serie pittorica nella quale aveva espresso la personale visione del mondo e non certo come a una deflagrazione del conformismo. È lui stesso a spiegare, con modestia e semplicità: «Il Fregio è inteso come una sequenza di dipinti decorativi che, insieme, rappresentano un’immagine di vita. La sinuosa linea della costa li attraversa tutti, aldilà di essa vi è l’oceano, in perenne movimento, e sotto le cime degli alberi si snoda la vita multiforme, con le sue gioie e i suoi dolori». Questa sequenza di dipinti fu esposta, a partire dal 1902, in una dozzina di occasioni, suddivisa in quattro temi (uno per parete) intitolati dallo stesso Munch:

Seme dell’amore;

Notte stellata, Rosso e bianco, Occhi negli occhi, Danza sulla spiaggia, Il bacio, Madonna

Sviluppo e dissoluzione dell’amore;

Ceneri, Vampiro, La danza della vita, Gelosia, La donna, Malinconia

Angoscia;

Angoscia, Sera sul viale Karl Johan, Edera rossa, Golgota, L’urlo

Morte.

Il letto di morte, La morte nella stanza della malata, Odore di morte, Metabolismo. La vita e la morte, La madre morta e la bambina

A Berlino nel 1893 Munch ripresentò l’opera come “Studio per una serie” e per la prima volta ne espose i principi pittorici. In rapporto a questa mostra, a giugno del 1894, l’editore Fischer pubblicò la prima monografia sull’artista, con contributi, fra gli altri, di Stanisław Przybyszewski e Julius Meier-Graefe. La definizione “Studio per una serie” chiarisce che i dipinti non erano a sé stanti, ma consequenziali. Comparivano sulle pareti della sala come una successione di storie. Storie, da rintracciarsi nel percorso narrativo delle differenti mostre in cui i quadri furono esposti. Volta per volta, anche il numero dei dipinti fu differente, da un minimo di sei a un massimo di ventidue. Precisa Mai Britt Guleng sul catalogo della mostra del 2013, ospitata nella doppia sede del Museo Nazionale e del Museo Munch di Oslo, in occasione del 150° anniversario della nascita del celebre pittore (220 dipinti e 50 opere su carta): «Non un singolo quadro fece parte di tutte le dieci o dodici serie esposte tra il 1893 e il 1918. Forse ancora più sorprendente è il fatto che solo una limitata gamma di motivi vi fosse rappresentata – Il bacio, Madonna, Vampiro, Malinconia e L’Urlo – ma con dipinti eseguiti in periodi diversi, con grandi disparità nello stile e nei tempi di composizione. Anche gli allestimenti erano diversi tra loro: i dipinti potevano essere collocati separatamente a un’altezza normale o appesi in alto appena sotto il livello del soffitto, incorniciati da un passepartout bianco a formare una sequenza continua. In altre parole, il “Fregio della vita”, al singolare, non è mai esistito. Si tratta piuttosto di una serie di immagini multiple, che individualmente creano una loro narrazione visiva».

Il volume, edito nel 2013 offre il catalogo illustrato di tutte le opere comprese nella mostra “Munch 150” alla National Gallery e al Munch Museum di Oslo, insieme a una ricca bibliografia completa e alla cronologia degli eventi più importanti della vita dell’artista

L’Aftenposen di Oslo, il maggiore quotidiano norvegese per diffusione, definì Munch «un artista allucinato e allo stesso tempo uno spirito cattivo che si prende gioco del pubblico e si burla della pittura come della vita umana». Nell’agosto 1908, la crisi psicofisica, di cui negli anni il pittore aveva avvertito i sintomi, tocca il culmine. Abuso di alcol, allucinazioni, mania di persecuzione e un principio di paralisi alle gambe lo spingono a farsi ricoverare. È il 3 ottobre 1908, quando entra nella clinica psichiatrica del neurologo Daniel Jacobson, da cui uscirà nel maggio 1909, ristabilitosi psichicamente e fisicamente. Così si dice. È certo però che lui stesso sia persuaso che “la malattia, la follia e la morte” presenti nella sua famiglia (e per riflesso nei suoi lavori) si trasmettano di generazione in generazione. Lo esprime pittoricamente con Lʼeredità. Tuttavia lo scrive anche di proprio pugno. Dove? Sul suo quadro più famoso, L’urlo. Questa sembra che sia la scoperta degli ultimi giorni. Sul cielo rosso una piccola nota, scritta a matita nell’angolo in alto a sinistra, critica aspramente: «Può essere stato dipinto solo da un pazzo». La prima volta che l’iscrizione è stata menzionata fu in occasione di una mostra a Copenaghen nel 1904, undici anni dopo che Munch dipinse l’opera. Sembrava lo sfregio di un visitatore. Oggi, con l’ausilio della tecnologia ad infrarossi utilizzata per analizzare la calligrafia e paragonarla a quella di lettere e diari, il Museo Nazionale della Norvegia conferma, al contrario di ogni immaginazione, l’autenticità autografa dell’artista.

L’urlo, 1893/1910, Galleria Nazionale, Oslo

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Il gusto fantastico e orrido di Ensor nella bottega di souvenir

di Sergio Bertolami

7 – Il Simbolismo in Belgio: James Ensor.

Dopo la maschera mondana di Fernand Khnopff ci soffermeremo su altre maschere, come quelle dipinte da James Ensor, simboli della solitudine piuttosto che dell’eleganza, dell’inquietudine, della crisi identitaria, metafore con le quali quest’altro grande maestro del Simbolismo belga ha coltivato un terreno fertile alle avanguardie del primo Novecento europeo. Le Maschere davanti alla morte (1888), la Sorpresa della maschera Wouse (1889), Maschere bizzarre (1892), sono queste tra le sue maschere più celebri. Chi conosce Ensor, anche solo di sfuggita, non lo confonderebbe mai con Khnopff. Il primo istintivo, vibrante, coloristicamente violento, il secondo levigato, affettato, allusivo. Evidentemente, non era dello stesso avviso Ensor, che giunse ad accusare Khnopff di plagio per un dipinto presentato nel 1886 in una esposizione del gruppo Les XX. L’opera in questione è Ascoltando Shumann (1883) dove la madre di Khnopff, seduta in poltrona, appoggia assorta il capo su di una mano. Solo il titolo allude alla musica di un pianoforte, che delle dita sulla tastiera stanno appena sfiorando, in un angolo del dipinto. Nella Musica russa, Ensor mette, invece, al centro della tela, la pianista che il padre del pittore sta ascoltando. L’idea del pianoforte rievocava la sua passione per la musica e gli suggeriva il ricordo di ciò che non poteva più essere. Per lui, che visse e concluse la vita a Ostenda, i ricordi erano necessari, quanto le opere dalle quali non riusciva a separarsi, quanto il proprio ambiente familiare.

Fernand Khnopff, Ascoltando Schumann, 1883
James Ensor, La Musica russa, 1883, Musée Royaux des Beaux-Arts, Bruxelles

Come Fernand Khnopff scelse la sua villa, in questo stesso modo James Ensor rimase fedele alle proprie intime stanze. Nel 1880 installò lo studio nell’attico della casa dei genitori. Dalla finestra della camera da letto dipinse alcuni dei suoi grandi paesaggi. Nel soggiorno ambientò le scene dei suoi dipinti e, a loro volta, i suoi dipinti invenduti costituirono le decorazioni delle pareti della sua casa. Una “mise en abyme” con la quale duplicare la narrazione della propria esistenza. Basti immaginare che dopo il 1900, quando la sua espressività fenderà la fantasia del pubblico più colto, tornerà persino a copiare le composizioni più famose della sua arte. E poi c’era il negozio di famiglia, che per tradizione era occupata nel commercio di souvenir e di curiosità. Tutti i suoi parenti avevano negozi a Ostenda: i genitori, ma anche i nonni, gli zii e le zie. Vendevano cartoline, conchiglie, coralli, rane impagliate, sirene, ventagli, modellini di navi, cineserie, maschere. Sì, maschere, proprio maschere, che formeranno quell’universo di meraviglie al quale il pittore non vorrà mai sottrarsi. Non rappresentano, però, immagini allegre e facete. Lo compresero subito i venti artisti belgi che a Bruxelles nel 1884 – analogamente a quanto accadeva a Parigi con il Salon degli Artisti Indipendenti – inaugurarono il Salon des XX col quale organizzare esposizioni annuali.

James Ensor, L’entrata di Cristo a Bruxelles, 1888, Getty Museum, Los Angeles

Vi facevano parte Octave Maus e Théo van Rysselberghe, che lo avevano promosso, ma anche architetti come Henry van de Velde, scultori come George Minne o pittori come Jan Toorop e Félicien Rops. C’era anche Fernand Khnopff, suo compagno al corso Portaels nell’Accademia reale di Belle arti di Bruxelles. Ensor cominciò col prestare attenzione alle qualità espressive della luce, della linea, del colore, ai motivi grotteschi e macabri, come quelle maschere e quegli scheletri che ogni anno animavano le sfilate carnevalesche lungo le strade di Ostenda all’approssimarsi della Quaresima. Per questo Ensor nel 1887 propose al Salon des XX i risultati della sua ultima ricerca con la serie di disegni intitolati Visions. Le aureole di Cristo o la sensibilità della luce, perché solo la figura luminosa del Salvatore poteva riflettere, a suo avviso, tutti gli stati d’animo: “allegro” o “crudo” o “triste e rotto” o “intenso” o “radioso”. Il gruppo belga dei pittori aveva lodato le ricerche luministiche di Una domenica pomeriggio sull’isola della Grande-Jatte del francese Seurat, che i parigini al contrario avevano disdegnato all’Esposizione degli Impressionisti del 1886. Invece, i disegni di Ensor non suscitarono in loro nessun entusiasmo. Ensor stesso scriverà: «Sono stato collocato, a torto, tra gli impressionisti, millantatori della pittura en plein air, affezionati ai toni chiari. Prima di me, nessuno aveva compreso la forma della luce e le deformazioni che essa fa subire alla linea».

Ensor nel suo studio mentre suona l’armonium, sulla parete possiamo vedere “Cristo a Bruxelles”

La delusione divenne ancora più scottante quando lo stesso Salon des XX, proprio l’associazione di artisti che aveva contribuito a fondare, rifiutò L’entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889. Il dipinto fu considerato blasfemo e per tutta la vita gli toccò esporlo su di una parete dello studio. Oggi (proprietà del Getty Museum di Los Angeles) è celebrato come il suo capolavoro, precursore dell’Espressionismo del Ventesimo secolo. Ensor vi rappresenta la grande parata carnevalesca del Mardi Gras. In contrapposizione al puntinismo francese, utilizzò non solo spatole, ma entrambe le estremità del suo pennello, per applicare macchie di colore con grande libertà espressiva. «Queste maschere mi piacevano – scriverà – anche perché “stropicciavano” quel pubblico che mi aveva accolto così male». In particolar modo quei critici che non lo avevano fino ad allora compreso e la borghesia che non lo apprezzava affatto. Ecco allora rappresentata una calca scomposta di esseri ridicoli, un mare caotico di maschere ghignanti e deformi, pagliacci e volti caricaturali. «Vive Jesus le Roi de Bruxelles», gridano ovunque. Una fanfara strombazzante precede il corteo. Cristo monta un asino, perso come uno dei tanti tra una moltitudine indifferente. È riconoscibile dalla sua aureola dorata. Cristo, portavoce politico di poveri e oppressi. Umile leader della vera religione, in contrasto al riformatore sociale ateo Emile Littré, in abiti vescovili con in mano la bacchetta di un tamburo maggiore, che guida la folla festosa e scriteriata, pronta ad accogliere il figlio di Dio e poi tradirlo. Su di un enorme striscione rosso campeggia lo slogan “Vive la sociale”, in tal modo evidenziando le opinioni politiche del pittore a favore delle riforme e del suffragio universale. Una scritta quanto mai indicativa: stabilisce un primo legame tra manifesti politici e manifesti artistici.

La casa di Ensor a Ostenda

A partire dal 1896, Ensor cominciò a promuoversi come scrittore, pubblicando interventi su giornali come Le Coq Rouge e La Ligue artistique. Franz Hellens – prolifico romanziere e critico belga, quattro volte designato al Premio Nobel per la letteratura – ha steso nel 1974 la prefazione in una delle edizioni degli Écrits, designando come “il vero Ensor” quello che usava la penna più che il pennello, «l’Ensor armato di spada e miele, mordace e irriverente, ingenuo e cinico. Il più grande enfant terrible che la pittura abbia mai conosciuto, un bambino in tutte le connotazioni autentiche e terribili della parola». Viene da chiedersi come si vedesse Ensor, la cui figura d’artista attraverserà tutta la prima metà del Ventesimo secolo. In numerosi discorsi si definì un precursore del Luminismo, del Fauvismo, del Cubismo, dell’Espressionismo, del Futurismo e del Surrealismo. Ma non fu solo questo, perché Ensor attribuì sempre una grande importanza anche alla musica e alle sue produzioni musicali. Nel 1911 s’impegnò per La Gamme d’amour, una messa in scena per la quale scrisse libretto e musiche, oltre a disegnare scene e costumi. Dal 1917 l’artista si trasferì nella casa ereditata dallo zio, in Vlaanderenstraat/Rue de Flandre, dove visse ancora per oltre quarant’anni. Oggi la casa ospita il museo a lui dedicato. All’ingresso si affianca una perfetta ricostruzione del negozio di souvenir dello zio. A chi entra sembra quasi che il tempo si sia fermato.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay