Nel silenzio Fernand Khnopff ha chiuso la porta su sé stesso

di Sergio Bertolami

6 – Il Simbolismo in Belgio: Fernand Khnopff.

Lo chiamavano “le Castel du rêve”, il castello del sogno, “la chapelle votive”, la cappella votiva, per l’estetica tutta personale e complicata. Eppure, era di una linearità esemplare, la sua casa. Non il palazzo in cui si è isolato Jean Floressas Des Esseintes, il protagonista di “A Rebours”, romanzo di Joris Karl Huysmans. Mi riferisco alla sofisticata residenza di Fernand Khnopff, tanto lontana nell’immaginario collettivo dalla “scatola” altrettanto sofisticata in cui Edmond Goncourt organizzava la domenica incontri di artisti, in soffitta, ricevendo fra i suoi amici Alphonse Daudet, Guy de Maupassant, Émile Zola. Il paragone tra Khnopff e Des Esseintes è opera di Dumont-Wilden, biografo di Khnopff che designa l’artista come «un Des Esseintes che non ha mai subito l’educazione romantica e non ha mai frequentato la soffitta d’Auteuil». Tre case, dunque; legate tra loro da un filo estetizzante; ma gli ambienti vissuti dai Goncourt e quelli visionari di Des Esseintes o di Khnopff , si delineano differenti quanto distanti.

Facade of the Villa Khnopff. © Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles/ AACB

I fratelli Huot de Goncourt abitavano una casa acquistata in boulevard Montmorency, nell’attuale quartiere di Auteuil a Parigi. Fernand Khnopff eresse, invece, dalle fondamenta la sua villa a Bruxelles, in Avenue des Courses, ai margini del verde del Bois de la Cambre. Le due case non hanno nulla in comune se non che sono delle case d’artista. Letterati i Goncourt, uno dei massimi pittori simbolisti Khnopff. I primi però erano tesi a valorizzare ed esaltare la bellezza del passato, il secondo a prefigurare il cambiamento del prossimo futuro. I fratelli Edmond e Jules de Goncourt si stabilirono in quel loro villino nel 1868. Due anni dopo – alla morte di Jules, il più giovane – Edmond avrebbe voluto vendere tutto e fuggire dai ricordi. Fu allora che cominciò a pensare a un’asta in cui smembrare, quando fosse sopraggiunta anche la sua ora, la collezione d’arte francese del Settecento e le preziose stampe orientali che avevano contribuito alla moda della «Japonaiserie» parigina. Nel Journal – il diario dei due fratelli rimasto famoso per la quantità di notizie, aneddoti, scene di vita – emerge spesso l’amarezza per il disinteresse verso la casa da parte dei visitatori, l’inadeguatezza dei loro commenti, incuriositi soltanto dall’età degli oggetti o dal loro valore commerciale. Ogni angolo, dal pavimento al soffitto, era invece degno d’attenzione, per la cura dei particolari, delle soluzioni, oltre che per le raffinate collezioni d’arte. Fragilissime. Non mancano note sull’inquietudine ansiosa del padrone di casa nel vedere sfiorare i propri tesori da mani incaute. Il catalogo in due volumi di questa casa d’artista, redatto da Edmond de Goncourt, è arricchito da evocazioni fotografiche e descrizioni. Accompagnano il lettore da una stanza all’altra, da percorrere come un museo. È infatti, tuttora, un museo da visitare.

Edmond Pelseneer, L’Atelier Fernand Khnopff 1900, Archives D’Architecture Moderne, Brussels

Anche le immagini della villa di Fernand Khnopff a Bruxelles le troviamo riprodotte su pochi, selezionatissimi libri. Comparvero nella prima biografia dell’artista, pubblicata dal suo amico Louis Dumont-Wilden nel 1907, poi nell’articolo del 1912 di Hélène Laillet. Oggi quelle foto, che ritraggono stanze e corridoi vuoti – così diversi dalla casa densa di oggetti dei fratelli Goncourt – sono le uniche testimonianze rimaste, perché l’edificio è stato abbattuto dagli eredi tra il 1938 e il 1940 per elevare un anonimo condominio.

Fernand Khnopff, Chiudo la porta su me stessa (1891), Neue Pinakothek, Monaco di Baviera
Fernand Khnopff, Le carezze (1896); Musées Royaux des Beaux Arts de Belgique, Bruxelles

Quegli intellettuali che conoscono Fernand Khnopff, lo ricordano soprattutto quale pittore e fra le sue opere rammentano senz’altro dipinti enigmatici come Chiudo la porta su me stessa (1891) oppure Le carezze (1896). Nondimeno, Khnopff assistito dall’architetto belga Edouard Pelseneer ha elaborato le linee eleganti ed eteree della costruzione che sarà la sua abitazione e il suo atelier. I primi schizzi furono probabilmente compiuti nell’ottobre del 1899; il progetto elaborato nel marzo 1900 e la costruzione conclusa nel 1902. Poche persone sono state ammesse al suo interno e fra queste Hélène Laillet che scrive: «Se hai la fortuna di entrare, il domestico apre silenziosamente la porta e ti fa passare in un’anticamera decorata interamente di bianco, con pareti di stucco lucido. Da una posizione di orgoglio, un superbo pavone indiano impagliato osserva con la coda dell’occhio; è il guardiano altero di questa austera dimora».

The Antechambre. © Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles/ AACB.

Villa Khnopff era internamente tinteggiata di bianco, blu e oro. Il nero laccava soltanto i telai di porte e finestre. L’articolo di Hélène Laillet offre al lettore una vivida descrizione degli ambienti. Persino le foto possono riuscire fuorvianti, perché, quando si scorgono grigi alle pareti o al soffitto, sono semplicemente ombre. «Un drappo serico di un blu grigiastro, artisticamente sbiadito, si scosta e Fernand Khnopff, uomo di mondo, ti dà il benvenuto. Ma non ha quasi il tempo di assumere questa maschera mondana prima che venga messa da parte; dall’altra parte del sipario di seta esiste solo la personalità dell’artista, si impone e si ritrova in ogni minimo dettaglio dell’armonioso ambiente. Sembra quasi impossibile rendersi conto che cinque minuti fa eri per le strade trafficate di Bruxelles, perché qui nessun suono dal mondo esterno turba la mente, nessuna finestra ti mette in contatto con la vita; la tua immaginazione ti porta via e ti senti lontano da tutto ciò che è basso, meschino e senza valore; sei nel regno del bello e in questa atmosfera purificata senti un bisogno impellente di silenzio per poter ottenere, solo un momento, qualcosa d’ideale. Sì, il silenzio è necessario in questo lungo corridoio bianco pieno di una radiosità dolce e riposante; la luce del giorno entra attraverso curiose finestre di vetro colorato su cui i colori del blu e dell’oro, in combinazione, formano fiamme e figure fantastiche».

The Corridor. © Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles/ AACB.
The White Room (Dining Room). © Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles/ AACB.

C’è qualcosa di vago e inquieto nell’atmosfera di queste stanze. Sapendosi poco compreso Khnopff si rifugia nella solitudine e nel silenzio. Pare che abbia voluto riproporre le parole di Alfred de Vigny «Solo il silenzio è grande, tutto il resto è debolezza». L’essenza della casa è immateriale. Se l’artista non ce lo dicesse, noi visitatori occasionali non ci accorgeremmo, per esempio, di essere entrati in sala da pranzo fino all’ora dei pasti, quando compare un tavolino, per poi scomparire subito dopo essere stato sparecchiato. Diversi gradini alla fine del corridoio conducono allo studio. Qui, rispetto alle altre stanze, pare di sentirsi più a proprio agio, ma il senso di mistero diviene, al contrario, maggiore. Di fronte alla porta c’è un altare sacro a Hypnos, composto da una vetrina in cristallo poggiante su un piedistallo in vetro, fuso da Tiffany; due chimere di bronzo dorato mettono in risalto la scritta “On n’a que soi”. È il motto distintivo del pittore: “Non abbiamo che noi stessi”. Khnopff ripete spesso queste parole. Hypnos – una copia della testa in bronzo conservata al British Museum, risalente al IV secolo a.C. – è il dio greco del sonno. «Hypnos – osserva Hélène Laillet – diffonde in tutta la casa l’atmosfera del sonno, un sonno che conduce ai sogni».

Bronze head from a statue of Hypnos, 350 – 200 B.C. The British Museum, London.
The main studio with the altar of Hypnos on the right. © Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles/ AACB.

L’atelier è diviso in due ambienti, separati da tendaggi: uno per i lavori completati, che sembra quasi una sala espositiva, l’altro per i lavori in corso. Non c’è un solo dettaglio che non denoti il desiderio di una completa armonia, come in quel motto inglese che il pittore ha fatto suo: “Make the best of everything”, Ottieni il meglio da tutto. Non è facile leggere la mente creativa di Khnopff, neppure osservando minuziosamente i numerosi disegni in cui ha espresso qualcosa di sé. Neppure nel vederlo all’opera. In una delle foto, l’artista si fa riprendere mentre lavora a un grande dipinto posto sul cavalletto. Anche la sua figura sembra parte della ricercatezza che si respira nella villa, dove lo spazio di lavoro e di vita sono stati trasformati in un tempio dell’arte.

Fernand Khnopff in his studio.
The Blue Room.© Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles/ AACB.

Al piano superiore, riposa dopo il suo lavoro, cullato dai suoni del pianoforte. Dal bay-window non vede altro che fogliame verde. In questa “Chambre bleue”, come in quella di Mme de Rambouillet, tutti gli oggetti sono pezzi unici e portano firme illustri: un quadro di Delacroix, alcune opere di Gustave Moreau. Immerso nel suo preziosismo seducente Khnopff sogna e compone opere bellissime. Quasi sottovoce, Hélène Laillet annota: «Nella sua casa, espressione del suo ideale, lontano dal mondo, tagliato fuori da tutte le influenze esterne, solo nella sua solitudine altezzosa, Fernand Khnopff ascolta soltanto la voce dell’arte, e lavora metodicamente allo sviluppo della coscienza di sé stesso. Quando i giovani pittori vengono a chiedergli un consiglio risponde: “Siate soprattutto sinceri; se non avete niente da dire, non dite niente”. “L’arte non è una necessità”, aggiunge».

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Joris Karl Huysmans: il sublimato di un’arte diversa

di Sergio Bertolami

5 – À rebours, per diletto dello spirito.

Per comprendere i primi anni del Novecento nell’arte, occorre considerare le oscillazioni fra due secoli. In qualche modo, occorre afferrare i concetti di baricentro e stabilità dell’equilibrio, come quando da bambini destava in noi meraviglia vedere due forchette conficcate in un tappo di sughero che rimaneva fluttuante su di un filo. Per comprendere l’arte che si svilupperà è necessario, perciò, tornare indietro e poi di nuovo avanti e poi ancora indietro, in un continuo processo di feedback. Il Simbolismo, al quale si è accennato, è il terreno in cui infatti affonderanno le radici artisti come Picasso, Duchamp, Ernest, Delvaux e tanti altri ancora. Interessa le arti figurative, così come interessa la letteratura. Per questo motivo, ci attarderemo nella casa di Jean Floressas Des Esseintes. È un personaggio immaginario, nato dalla penna di uno scrittore visionario e stravagante come Joris Karl Huysmans, che all’età di 54 anni deciderà di seguire la regola benedettina e da oblato laico prendere il nome di frère Jean, proprio come il suo famoso personaggio. Aveva presagito bene Jules Amédée Barbey d’Aurevilly dopo aver letto “À rebours“, in Italia conosciuto col titolo di “Controcorrente”: «Dopo un libro come questo, non resta altro all’autore che scegliere tra la canna di una pistola e i piedi della croce». L’opera evidenziava, infatti, il malessere esistenziale, una malattia dell’anima che in modo stravolgente ripetutamente si proporrà nel corso del Novecento.

Joris Karl Huysmans

Des Esseintes, raffinato quanto inquietante aristocratico, conta tra le sue passioni quella per l’arte. Erede di una fortuna familiare, decide d’immergersi nel silenzioso riposo di Fontenay, impegnato ad arredare la sua nuova casa in modo fastosamente stravagante, desideroso di sottrarsi a un’odiosa epoca d’ignobile volgarità. Troveremo in queste pagine ricerche estetizzanti: ambienti, mobilio, colori, abbinamenti, rispondono ai contrasti avvertiti nello spirito e nella mente. «Dopo essersi disinteressato dell’esistenza contemporanea, si era risolto a non introdurre nella sua cella larve di ripugnanze o di rimpianti; aveva quindi voluto una pittura penetrante, raffinata, che fosse immersa in un antico sogno, in un’antica corruzione, distante dai nostri costumi, distante dai nostri giorni». Des Esseintes ricerca soluzioni legate più alle idee che alla realtà oggettiva. Nella sua collezione pittorica annovera quadri che non hanno affatto lo scopo di adornare la sua solitudine. Al contrario: «aveva voluto, per il diletto dello spirito e la gioia degli occhi, alcune opere suggestive che lo gettassero in un mondo sconosciuto, gli svelassero le tracce di nuove congetture, gli scuotessero il sistema nervoso con eruditi isterismi, con complicati incubi, con visioni languide e atroci». È nel simbolismo di Gustave Moreau e di Odilon Redon che trova il rapimento di lunghe estasi. Acquista i loro capolavori.

La Salomé di Gustave Moreau nella visione di Des Esseintes

Per notti intere sogna davanti a Salomé che chiede ad Erode la testa di Giovanni Battista. «Nell’opera di Gustave Moreau, concepita al di fuori di tutti i dati del Testamento, Des Esseintes vedeva realizzata la Salomè sovrumana e insolita che aveva vagheggiato. Non era più soltanto la ballerina che strappa a un vecchio, con una torsione indecente delle reni, un grido di desiderio e di foia; che sfinisce l’energia, fiacca la volontà di un re, ondeggiando i seni, scuotendo il ventre, facendo vibrare le cosce; diventava, in un certo qual modo, la divinità simbolica dell’indistruttibile Lussuria, la dea dell’immortale Isteria, la Bellezza maledetta, eletta fra tutte dalle catalessi che le irrigidiva le carni e induriva i muscoli; la Bestia mostruosa, indifferente, irresponsabile, insensibile, che avvelena, come Elena di Troia, chiunque le si avvicini, chiunque la veda, chiunque ne venga toccato». Salomé, dunque, come una divinità simbolica è raffigurata fuori dal tempo, in uno straordinario palazzo dallo stile fantastico e maestoso, con abiti sfarzosi e chimerici. Cosa rappresentavano i simboli di foggia orientale che indossava? «Annunciava al vecchio Erode un dono di verginità, uno scambio di sangue, una piaga impura sollecitata, offerta all’espressa condizione di un omicidio? O rappresentava l’allegoria della fecondità, il mito indù della vita, un’esistenza tenuta fra dita di una donna, strappata, sciupata da frementi mani d’uomo colto da demenza, travagliato da una crisi della carne?». Non i vangeli di Matteo, né di Marco, né di Luca, si dilungavano sulle grazie deliranti e sulle attive perversioni della carnale danzatrice. Al contrario, era il pennello di Moreau a lasciarle intendere, a sollecitarle.

Odilon Redon, L’occhio, come un pallone bizzarro, si dirige verso l’infinito, litografia

Una serie di opere di Redon decorava, invece, le boiserie del vestibolo. Paesaggi secchi e aridi, pianure calcinate, nubi in rivolta, cieli lividi e stagnanti, soggetti sovrastanti come incubi. Questi disegni inauguravano un genere fantastico del tutto particolare, un fantastico fatto di malattia e di delirio, di miraggi allucinatori, terribili. «E, infatti, certi volti, divorati da occhi immensi, da occhi folli; certi corpi cresciuti oltremisura o deformati come attraverso una caraffa, evocavano nella memoria di Des Esseintes ricordi di febbre tifoidea, ricordi tuttavia rimasti nelle notti ardenti, delle orribili visioni della sua infanzia». La stessa febbre tifoidea che si porterà via Aurier, padre del Simbolismo pittorico.

L’idea di Des Esseintes non si ferma ai contemporanei. Per la sua camera da letto sceglie infatti un’opera di Theotokopulos, meglio conosciuto come El Greco. Una pittura sinistra, dai toni del lucido da scarpe e del verde cadavere, che ben si addice all’arredamento immaginato per la sua camera da letto. Solo due erano per lui le soluzioni: o farne uno eccitante alcova, come quella che un tempo aveva a Parigi, un luogo di depravazione notturna all’assalto di vergini dal finto candore; oppure allestire una sorta di cella monastica, un luogo di solitudine e raccoglimento. Combattuto con la sua nevrosi, Des Esseintes scioglie il nodo esistenziale: «A forza di girare rigirare la questione sotto tutti i suoi aspetti, concluse che lo scopo da raggiungere poteva riassumersi in questo: allestire con oggetti gioiosi una cosa triste, o piuttosto, pur conservandole il carattere di bruttezza, imprimere all’insieme della stanza, così trattata, una sorta di eleganza e di distinzione; ribaltare l’ottica del teatro dove miseri ornamenti fanno la parte di tessuti di lusso e costosi; ottenere l’effetto totalmente opposto, servendosi di stoffe magnifiche per dare l’impressione di cenci; in una parola, disporre una cella di certosino che avesse l’aria di essere vera e che, beninteso, non lo fosse». Lascio al lettore il piacere di scoprire nel libro colori e materiali utilizzati, mobili e accessori, per condurre questa esistenza da eremita, grazie alla quale godere dei vantaggi della clausura, senza però soffrirne gli inconvenienti: l’austerità, la disciplina militaresca, il sudiciume, la promiscuità, l’inoperosa monotonia.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Non si tratta più di sensazione, ma dell’idea che ne deriva

di Sergio Bertolami

4 – Il movimento idealista in pittura.

Chi pensa che la storia dell’arte sia fatta solo di tele e pennelli oppure di mazzotte e scalpelli, sta proprio sbagliando strada. L’arte o l’architettura seguono le palpitazioni della vita sociale. Nelle opere si possono leggere indirizzi e aspirazioni profonde da collocare esattamente nel tempo in cui sono state prodotte. Lo scriveva Panofsky nel 1939, e Gerbrands nel 1956 considerava le espressioni artistiche come un sistema di “comunicazione simbolica”. Per cui immagino che ai miei lettori attenti si sia accesa una lampadina, quando hanno scorto, nel menzionato brano di André Mellerio, i nomi di Puvis de Chavannes, Fantin-Latour, Carrière, Odilon Redon, Gustave Moreau. Se si esclude Fantin-Latour – amico di Édouard Manet e che come lui rifiutò di fare parte degli impressionisti per rimanere nel solco del realismo – tutti gli altri artisti citati oggi li identifichiamo come appartenenti alla corrente simbolista. Non a caso. Mellerio è il biografo di Odilon Redon, da considerarsi, ci dice, come un artista che nell’arte contemporanea occupa un posto a sé stante. Soprattutto è il curatore di un libro pubblicato solo quattro anni prima della spettacolare Esposizione Universale di Parigi, nelle cui pagine vaglia questo gruppetto di artisti quali componenti di una corrente emergente: “Le mouvement idéaliste en peinture”.

Mellerio è chiarissimo quando annota: «Avvertiamo una volta per tutte che questo termine [Idealismo], non più di quelli di Impressionismo e Simbolismo e simili, non ha alcun significato razionale. Essendo queste etichette già fatte e attaccate ai pittori nella stampa d’arte, non volevamo cambiarle per paura di aumentare la confusione». Sorvolate, dunque, sulle etichette preconfezionate, ma soffermatevi sulla tendenza di questi artisti che cercano di sfuggire alla contingenza attraverso l’ispirazione e il modo di espressione. Ci sono, infatti, artisti realisti e artisti idealisti. «In altre parole – mentre il realista prende come obiettivo finale la riproduzione della natura nella sensazione diretta che essa dà luogo – l’idealista vuole solo vedere in essa il lontano punto di partenza del proprio lavoro». Una discussione di sicuro non recente: ha preso avvio dalla fine del Seicento, soprattutto in filosofia con George Berkeley, che riconduceva a “idea” ogni realtà oggettiva. «Non si tratta più di sensazione – specifica Mellerio –, cioè della cosa percepita indipendentemente dalla volontà, ma dell’idea che ne deriviamo, concetto puro che l’artista cercherà unicamente di esprimere, senza preoccuparsi delle oggettività esatte che erano la causa».

Una questione è certa: «L’arte ha le sue fluttuazioni» e dalle sensazioni degli impressionisti ogni nuova forma ha mosso i suoi passi. Per questo motivo l’opera d’arte moderna, ad ascoltare George-Albert Aurier, dovrebbe essere:
1° Ideista (o idealista, che dir si voglia) poiché il suo unico ideale sarà l’espressione dell’idea;
2° Simbolista, poiché esprimerà questa idea con le forme;
3° Sintetica, poiché scriverà queste forme, questi segni, secondo una modalità di comprensione generale;
4° Soggettiva, poiché l’oggetto non sarà mai considerato lì come un oggetto, ma come segno di un’idea percepita dal soggetto.
5° (è una conseguenza) Decorativa…
George-Albert Aurier, per chi non lo conoscesse, è colui che ha affermato le istanze del Simbolismo pittorico con un articolo apparso sul “Mercure de France” a marzo del 1891 intitolato “Le Symbolisme en peinture. Paul Gauguin”. L’anno successivo (quello della sua morte a soli 27 anni) pubblica il suo ultimo intervento sulla “Revue encyclopédique ou analyse raisonnée”. I contenuti seguono la via espressa su Le Figaro nel 1886, dal poeta Jean Moréas col “Manifesto del Simbolismo letterario”. Non occorre ricordare che il movimento simbolista interessò la letteratura, le arti figurative e nondimeno la musica, dove spiccarono le sonorità di Claude Debussy.

Pierre Puvis de Chavannes, Fanciulle in riva al mare, 1879, Musée d’Orsay, Paris

Fra i pittori di consolidata notorietà che hanno contribuito all’evoluzione del percorso simbolista ci sono, dunque, Puvis de Chavannes, Gustave Moreau, Odilon Redon e Paul Gauguin. L’ultimo di questi è il più conosciuto dall’odierno grande pubblico. Aurier nel suo articolo tratta del Gauguin simbolista; Octave Mirbeau, esponente illustre dell’evoluzione letteraria tra Otto e Novecento, ne descrive i capolavori capaci di evidenziare nell’arte dell’epoca percorsi innovativi: «C’è in quest’opera [di Gauguin] un’inquietante e gustosa miscela di splendore barbaro, di liturgia cattolica, di fantasticheria indù, d’immagini gotiche, simbolismo oscuro e sottile; ci sono realtà dure e voli frenetici di poesia attraverso i quali Gauguin crea un’arte assolutamente personale e completamente nuova». Il nuovo, il singolare, l’inatteso, l’incorrotto, Gauguin lo cerca nel primitivismo dei mari del Sud. È più che mai distante da un Pierre-Auguste Renoir, che appreso della sua partenza esclama graffiante: «Si può dipingere bene anche a Batignolles», rimanendo cioè nella sua Parigi in trasformazione. Dopotutto è quello che fa il giovane aristocratico, Jean Floressas Des Esseintes, mirabile protagonista letterario immortalato nel romanzo “À rebours” di Joris Karl Huysmans, nel 1884. Inversamente a Gauguin che cerca il nuovo imbarcandosi per terre lontane, Des Esseintes deluso e incomunicabile sceglie l’esclusione sociale per rifugiarsi in una “realtà ideale” che proverà a costruirsi dentro e fuori di sé.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay  

All’Esposizione Centennale solo una sala per gli impressionisti

di Sergio Bertolami

3 – L’Exposition de 1900 et L’Impressionnisme.

Si chiamava André Mellerio il raffinato critico d’arte deluso, e non poco, della mostra sugli impressionisti allestita al Grand Palais in occasione della grande Esposizione Universale del 1900 a Parigi. La giudicava una manifestazione incompleta, rispetto a ciò che si sarebbe atteso. Evidenziava la sua disapprovazione in un libricino di appena sessanta pagine che s’intitola L’Exposition de 1900 et L’Impressionnisme. Un omaggio a una corrente artistica alla quale finalmente era stato riconosciuto il suo giusto valore. André Mellerio chiariva, infatti, che fino a pochi anni prima – come si poteva leggere nelle Notes sur l’Art Moderne di Andrè Michel – alcune persone, pronunciando la parola impressionista con “santo orrore” includevano, nello stesso anatema, tutti coloro che ne erano convinti o semplicemente sospettati. Fra il grande pubblico c’era l’abitudine, condivisa, di trattare come impressionista l’autore di qualsiasi dipinto dove ci fosse del viola in un’ombra; dove si notassero macchie più o meno informi di colore o una totale assenza di disegno. In breve, era impressionista qualsiasi tela che sembrasse pazza e priva di valore d’arte. Negli ultimi anni dell’Ottocento, invece, l’impressionismo aveva cessato di essere negato. La sua azione era riconosciuta, il suo successo tendeva sempre più al culmine. All’alba del Novecento, finalmente l’impressionismo, «qualunque sia il grado più alto o più basso che gli verrà assegnato un giorno in modo definitivo, occupa un posto determinato nella storia dell’Arte». Scriveva così Mellerio.

Il critico André Mellerio è la persona che indossa il cappello a cilindro nel dipinto di Maurice Denis, Omaggio a Cézanne, 1900, Parigi, museo d’Orsay.

Il problema, tuttavia, secondo il critico d’arte era capire che posto occupasse l’impressionismo nella grande Esposizione del 1900, cioè nell’immaginario di chi gli aveva riservato un posto così marginale nella mostra aperta per fare il bilancio del secolo che si chiudeva e determinare il futuro dell’arte nel secolo che entrava. Nonostante l’evolversi dei tempi, qual era il risultato rappresentato in mostra? Presto detto, rispondeva: «Alcuni vecchi paesaggi di Monet, Pissarro e Sisley. Alcune figure di Renoir, due dipinti e tre o quattro pastelli di Degas; qualche raro Cézanne, pochissimi Berthe Morizot, un Guillaumin, qualche Boudin sparso qua e là, e basta. Alla vista di questa stanzetta luminosa e allegra, piena di talenti, si prova una gran gioia, ahimè! sminuita, quando si pensa, di fronte alla manifestazione troncata, a ciò che si sarebbe sognato, infinitamente più vasto e completo». Mellerio non era il solo a esprimere un giudizio così riduttivo. A leggerlo, sembra fargli eco anche Arsène Alexandre, il critico d’arte del quotidiano Le Figaro che martedì 1° maggio 1900 pubblicava due pagine fitte-fitte riguardanti “Le Belle arti all’Esposizione Universale del 1900”. Dopo avere esaminato l’Exposition retrospective al Petit Palais, passava alla Centennale de l’art Français e qui sorgeva anche a lui qualche dubbio, subito da fugare: «Quando si sono fornite, organizzando una simile mostra, tali prove di imparzialità e alta critica, non si può sospettare di aver voluto fare polemica artistica. Se poi la Centennale ci offre una sfolgorante sala impressionista, è perché questo gruppo di artisti, direttamente collegato a Corot, a Courbet, a Manet, ha conquistato il suo posto, e non ultimo, nell’arte di questo secolo, e ha rinnovato le nostre gioie dell’arte, ha chiarito la nostra visione, ampliato la nostra comprensione della natura».

Le Figaro di martedì 1° maggio 1900

Affermare, in altre parole, di non sospettare che i curatori della mostra avessero voluto “fare polemica artistica” era comunque sollevare la questione fra i competenti. Per capirci, basta riprendere le parole di Mellerio: «Pur tenendo conto degli sforzi di artisti isolati (come Puvis de Chavannes, Fantin-Latour, Carrière, Odilon Redon, Gustave Moreau, etc), nonché del recente contributo del giovane movimento idealista – significativo come tendenza, ma costituito da opere non del tutto mature – va riconosciuto che l’impressionismo rappresenta la maggior parte degli sforzi della pittura francese, durante l’ultimo quarto del XIX secolo». Allora perché dedicargli soltanto “… una sfolgorante sala” e non più? La risposta, in qualche modo, la forniva su Le bilan d’un siècle (1801-1900) Alfred Picard, commissario generale dell’Esposizione. Evidenziava lo start, il fotogramma di avvio del nuovo film chiamato Novecento, esaminando i cambiamenti intervenuti nelle esposizioni artistiche e nell’emancipazione dell’arte contemporanea. I Salon – affermava Picard – occupavano un grande spazio nella vita degli artisti: è là che i giovani andavano a cercare la strada verso la gloria, che i maestri sostenevano e argomentavano la loro celebrità, che il pubblico degli estimatori esprimeva le proprie scelte (e, per sottinteso, acquistava opere, investiva sull’arte). Dopo il 1880, però, le Esposizioni annuali divennero libere, organizzate dagli artisti stessi riuniti in associazioni. Lo Stato non interveniva che per la concessione dei locali, per le acquisizioni in base agli stanziamenti di bilancio, per le attribuzioni di alcuni premi e borse di viaggio.

All’inizio – continua Picard – non c’era che è una sola associazione a gestire il Salon: la Société des Artistes Français. Successivamente, con la scissione, nel 1891 si diede vita alla Société Nationale des Beaux-Arts. Picard, con pochi tratti, delineava un momento particolare della storia artistica francese, legato alla proposta di William-Adolphe Bouguereau che il Salon diventasse una semplice esposizione senza premi, ma capace di dare visibilità alle giovani generazioni. L’opposizione fu netta. Un gruppo di artisti – sotto la presidenza di Meissonier alla guida di un comitato formato in particolare da Pierre Puvis de Chavannes, Carolus-Duran, Félix Bracquemond, Jules Dalou, Auguste Rodin e molti altri ancora – rigettò l’idea e creò una scissione, esponendo in quello che rimarrà come il Salon du Champs de Mars. All’inaugurazione dell’Esposizione del 1900, gli artisti erano divenuti ormai legioni, gioivano per una indipendenza assoluta, non conoscevano più la sferza dei grandi maestri, ubbidivano liberamente al proprio gusto e al proprio temperamento. Gli orientamenti che seguivano, anziché essere poco numerosi e nettamente definiti, si erano moltiplicati ogni giorno di più. L’Esposizione aveva, dunque, il dovere di mettere in mostra questo panorama variopinto di correnti artistiche diverse. «Dovremmo deplorare o applaudire? – concludeva Picard – Le opinioni sono discordi; ma i liberali [come noi] non possono fare a meno di rimanere fedeli alla loro fede, e considerare, nel campo artistico come in altri, la libertà individuale come la più pura fonte di progresso».

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IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay