Viaggi transatlantici – La grande trasvolata del dirigibile britannico R34

 

 

Il 6 luglio 1919 l’Airship britannico R-34 atterra a New York, portando a termine la prima traversata dell’Oceano Atlantico su di un dirigibile. Per gli inglesi era conosciuto come “Tiny”, che tradotto significa “piccolo”, ma piccolo non lo era affatto. Le cronache dell’epoca dicono che fosse grande come una corazzata e lo paragonano alla “Dreadnought”, entrata in servizio della Royal Navy britannica nel 1906 e, come esprimeva il suo nome, non temeva nulla. Il “Tiny” aveva una lunghezza complessiva da prua a poppa di 643 piedi, il doppio di un campo di calcio. La ditta di William Beardmore and Company Ltd. di Inchinnan, vicino a Glasgow, iniziò la fabbricazione del modello R34 il 9 dicembre 1917 per completarlo in poco più di un anno. Ogni accortezza moderna era stata adottata, persino la verniciatura dell’intera struttura serviva a prevenire la corrosione atmosferica che la “nave” avrebbe incontrato sull’Atlantico. La cabina di controllo era fornita di vetri di sicurezza “Triplex”. Ognuno dei cinque motori era un “Maori” di Sunbeam: un nuovo modello progettato per la Wolverhampton da un francese, Louis Coatalen, e destinato esclusivamente all’uso dei dirigibili. Non era, però, un motore Rolls Royce poiché alla fine della guerra nessuno dei motori Rolls Royce era disponibile in quanto prodotti solo per essere installati sugli aerei militari. Anche se il dirigibile R34 fu progettato durante il periodo bellico, non fu mai equipaggiato con armamento completo. Avrebbe potuto montare un considerevole carico di bombe ed anche un armamento pesante destinato alla difesa contro gli Zeppelin tedeschi. Nelle pagine del blog in inglese è possibile scorrere una serie di informazioni tecniche e le diverse prove che precedettero il viaggio transatlantico. La sera del 17 giugno 1919, ad esempio, l’R34 fu fatto sollevare per una prova adeguata prima del volo principale. L’idea era di fargli esplorare le coste baltiche tedesche. La nave svolse egregiamente le sue funzioni e volò anche in Danimarca, Norvegia e Svezia. Atterrò secondo le previsioni la mattina del 20 giugno dopo un viaggio di 54 ore. Il ministero dell’Aeronautica prese così la decisione di portare l’R34 negli Stati Uniti, e fu prevista anche l’alternativa di una rotta costiera verso nord nel caso in cui la nave aerostatica avesse esaurito il carburante. Due navi da guerra, la Renown e la Tigre, avrebbero seguito il volo come mezzi da rifornimento nel caso in cui il dirigibile si fosse trovato in difficoltà, supportando la trasvolata con rapporti meteorologici. Fu concordato che se si fosse trovato in difficoltà, l’R34 sarebbe stato rimorchiato. I piani organizzati a New York consistevano nella fornitura di idrogeno. Inoltre, un gruppo di 8 aviatori esperti fu inviato in America per organizzare e addestrare il personale di terra americano.

Il 1 ° luglio 1919 il dirigibile fu gassato al limite e caricato a pieno regime, e a fine serata era pronto. L’ora di partenza ufficiale è stato fissato alle 2:00 (GMT) del 2 luglio. Le previsioni del tempo erano favorevoli e, con qualche anticipo, alle 1.42 del mattino (GMT) fu dato il segnale di rilascio. L’R34 si alzò lentamente verso il nebbioso cielo notturno. La vita a bordo nei giorni successivi si è svolta secondo il programma prefissato, così i pasti e i tempi di riposo concordati. L’intrattenimento dell’equipaggio era assicurato da varietà di musiche jazz, che potevano essere ascoltate dal grammofono di bordo. Il viaggio procedette a un ritmo costante e una routine standard. Sembra che si sia verificato un solo problema. Alle 14.00 del primo giorno si scoprì che un clandestino era riuscito a salire a bordo del dirigibile e a nascondersi nel magazzino. Il numero delle persone a bordo non doveva superare le trenta unità, per necessità di peso e d’ingombro. Nonostante le disposizioni, due ore prima del volo, William Ballantyne riuscì a nascondersi approfittando dell’oscurità. Era uno degli addetti che aveva lavorato a terra, tant’è che portò con sé anche la mascotte dell’equipaggio, un gattino tabby chiamato “Whoopsie”. Le condizioni anguste e l’odore del gas, molto forte nella zona del magazzino, fecero insorgere una forte nausea, cosicché Ballantyne fu costretto ad uscire dal nascondiglio. Fu portato di fronte allo stato maggiore, ma fu deciso che nulla si poteva fare al riguardo. I presenti convennero che se avessero sorvolato la terra ferma, Ballantyne sarebbe stato espulso fuori bordo con il paracadute; ma dal momento che il prossimo approdo sarebbe stato in America, non si poteva che trattenerlo a bordo. Ballantyne fu impegnato come cuoco e per quanto riguarda il secondo clandestino, il gattino Whoopsie, servì ad offrire ulteriormente svago e conforto ai membri dell’equipaggio. Con un tempo instabile la traversata proseguì fino in America. L’R34 atterrò alle 9.54 del mattino del 6 luglio, dopo 108 ore e 12 minuti di volo. Quando fu revisionato il serbatoio, si constatò che c’erano 140 litri di carburante, sufficienti solo per altre 2 ore di volo a potenza ridotta. Il dirigibile sostò in America per 3 giorni prima di intraprendere il volo di ritorno. Durante questo periodo, come è facile immaginare, i membri dell’equipaggio hanno partecipato a una numerosa serie di eventi acclamati per la traversata storica.

 

La mappa della rotta del dirigibile

 

 

LE TRAVERSATE TRANSATLANTICHE sono passaggi di persone e merci attraverso l’Oceano Atlantico tra l’America e l’Europa o l’Africa. I voli transatlantici superarono i viaggi a bordo dei transatlantici come modo predominante di attraversare l’atlantico nella metà del ventesimo secolo. Nel 1919 il Curtiss NC-4 divenne il primo aeroplano ad attraversare l’Atlantico seppur con più scali. Appena un anno dopo l’aereo inglese Vickers Vimy pilotato da Alcock e Brown fece il primo volo transatlantico senza scali da Terranova all’Irlanda. Sempre nel 1919 gli inglesi furono i primi ad attraversare l’Atlantico a bordo di un dirigibile. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

LEGGI LA SCHEDA SU WIKIPEDIA

AIRSHIPSONLINE.COM

R34 – The Record Breaker

Adriano Olivetti – A Ivrea il personal computer prima di Steve Jobs

 

Adriano Olivetti

 

«Il sogno di Olivetti è fare di Ivrea la capitale della cultura industriale italiana. Un progetto in cui far confluire cristianità e umanesimo, le scienze sociali e l’arte, la tecnologia e la bellezza». Scrive così Aldo Cazzullo nell’articolo del Corriere della Sera che presentiamo nel FLIP di oggi per commentare la notizia che «Ivrea, la città ideale della rivoluzione industriale del Novecento, è il 54esimo sito Unesco italiano. Un riconoscimento che va a una concezione umanistica del lavoro propria di Adriano Olivetti». Questa volta a parlare è il Ministro dei beni e delle attività culturali, Alberto Bonisoli, che ha annunciato l’iscrizione di “Ivrea Città Industriale del XX Secolo” nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO. La decisione è stata presa a a Manama in Bahrei durante i lavori del 42° Comitato del Patrimonio Mondiale, iniziati il 24 giugno e che termineranno il 4 luglio. Sin da ora Ivrea porta l’Italia in testa alla lista mondiale dei siti Unesco, organismo culturale dell’Onu: 54 sono quelli che rappresentano il nostro Paese, 52 quelli appartenenti alla Cina, 47 alla Spagna. Perché Ivrea? Con la fondazione della prestigiosa fabbrica di macchine per scrivere fondata nel 1908 da Camillo Olivetti, la città di Ivrea diviene un vero e proprio progetto industriale, sociale e culturale del XX secolo. Si sperimentano innovative idee sociali e architettoniche connesse a visionari processi industriali niente affatto scissi dal benessere della comunità locale. Questo spirito innovativo è colto nella sua essenza dalla scheda ufficiale che possiamo leggere per intero sulle pagine ufficiali dell’Unesco: «Il sito, che si trova in Piemonte e si estende per circa 72.000 ettari, è costituito da un insieme urbano e architettonico, di proprietà quasi esclusivamente privata, caratterizzato da 27 beni tra edifici e complessi architettonici, progettati dai più famosi architetti e urbanisti italiani del Novecento. Si tratta di edifici costruiti tra il 1930 ed il 1960 e destinati alla produzione, a servizi sociali e a scopi residenziali per i dipendenti dell’industria Olivetti. L’insieme rappresenta l’espressione materiale, straordinariamente efficace, di una visione moderna dei rapporti produttivi e si propone come un modello di città industriale che risponde al rapido evolversi dei processi di industrializzazione nei primi anni del ‘900».

CONTINUA A LEGGERE LA SCHEDA SUL SITO UFFICIALE DELL’UNESCO: Ivrea, città industriale del XX secolo
SFOGLIA LE FOTO SU LA REPUBBLICA: Nel museo a cielo aperto di Ivrea: ecco i tesori olivettiani candidati all’Unesco
SCOPRI: Programma 101 di Olivetti ha spalancato la strada alla rivoluzione del personal computer

 

ADRIANO OLIVETTI (Ivrea, 11 aprile 1901 – Aigle, 27 febbraio 1960) è stato un imprenditore, ingegnere e politico italiano, figlio di Camillo Olivetti (fondatore della Ing C. Olivetti & C, la prima fabbrica italiana di macchine per scrivere) e Luisa Revel e fratello degli industriali Massimo Olivetti e Dino Olivetti. Uomo di grande e singolare rilievo nella storia italiana del secondo dopoguerra, si distinse per i suoi innovativi progetti industriali basati sul principio secondo cui il profitto aziendale deve essere reinvestito a beneficio della comunità. Per tutelare e promuovere la figura di Adriano Olivetti e il suo pensiero gli eredi hanno costituito nel 1962 la Fondazione Adriano Olivetti con sede a Roma e a Ivrea. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

LEGGI LA SCHEDA SU WIKIPEDIA

CORRIERE DELLA SERA

Ivrea patrimonio Unesco, tecnologia e umanesimo nella città ideale di Olivetti

Dipinti cubisti – Non assomigliavano a niente, ma con la guerra assomigliarono a tutto

Alighiero Boetti, 1966, tela mimetica, cm 170 X 270

Tutti noi abbiamo sotto gli occhi le scene filmiche di schiere di fucilieri che si muovono sui campi di battaglia compatti ed allineati, quasi in parata. Attendiamo solo che i colpi dei mortai portino scompiglio nella compagine e, subito dopo, ecco l’assalto della cavalleria. Gli eserciti dell’una o dell’altra parte hanno divise dai colori sgargianti, ben distinguibili dal terreno verdeggiante delle colline. Armi lucenti al sole, copricapi audaci in quanto ad evidenza: pelo d’orso, piume d’aquila o di gallo cedrone, crini di cavallo. A differenza degli eserciti popolari raccogliticci e disomogenei, l’uniforme (lo dice la parola stessa) serve ad impressionare il nemico, serve a manifestare potenza bellica, ordine e disciplina tipica di chi è stato addestrato a scontrarsi, chi nel corpo a corpo non risparmierà di assestate colpi cruenti. L’uniforme moderna nasce nel secolo diciassettesimo, sotto la spinta necessaria di rendere immediatamente riconoscibili i nemici (pericolosi se avvistati all’ultimo minuto) dagli amici, e fra questi ultimi distinguere gli appartenenti al proprio corpo di truppa, dai quali nella mischia del combattimento all’arma bianca ci si potrebbe ritrovare isolati. Occorre sicuramente riconoscere i superiori, investiti dei vari gradi militari, da cui si attendono gli ordini opportuni che possono rendere salva la vita. Tutto questo nella confusione del combattimento e nella nebbia prodotta dalle schioppettate dei fucili. È un modo di pensare che arriverà fino alla prima guerra mondiale.

Le belle divise colorate attraggono le folle esultanti durante le sfilate, richiamano le nuove reclute all’arruolamento, e quando si avvicina la paura della battaglia riducono i tentativi di diserzione, poiché i renitenti si distinguono ad occhio nudo tra la gente. Ma la guerra di trincea cambia tutto e sotto i colpi di cannone della linea nemica occorre mascherarsi piuttosto che evidenziarsi. Le divise assomigliano sempre più alla terra fangosa e al verde umido della boscaglia. Ma non basta ancora, perché per sfuggire ai cecchini abituati a percepire il minimo sussulto necessita mimetizzarsi con l’ambiente circostante, camuffarsi nella natura, assumere il colore macchiato dei fogliami con le tonalità del paesaggio nel quale si combatte. Ecco dunque che l’uniforme “si uniforma” alle differenti gradazioni di nero, verde, kaki, marrone. Meglio se tutto questi colori si mischiano insieme, così alla tinta unita si preferiscono le chiazze della mimetica. Perché ora il rischio non proviene soltanto dal fuoco d’artiglieria nelle retrovie della trincea avversaria o dai colpi a ripetizione della mitragliatrice dal bunker posto su di una collinetta. Ora la morte, per la prima volta, viene anche dal cielo e le probabilità di essere colpiti da un biplano non sono remote.

La storia racconta che sono stati i francesi a svolgere il ruolo delle “avanguardie del camuffamento” militare durante la Grande Guerra e che si sono avvalsi degli impasti coloristici delle “avanguardie artistiche”. Nel 1915 personalità delle arti figurative sono, infatti, chiamate a fare parte della sezione speciale dei “camoufleurs”, sotto il comando di Lucien-Victor Guirand de Scevola. L’artigliere di seconda classe Lucien-Victor Guirand de Scévola aveva visto ridotte in polvere fior di postazioni a Metz. Così dal momento che da civile era uno dei pittori noti per avere esposto al “Salon des artistes français”, pensa di camuffare una postazione di cannone con una tela dipinta. In guerra i tempi sono strettissimi: Il 12 febbraio 1915 il generale Joffre fonda la “Section de Camouflage” di stanza ad Amiens. A maggio si piantano “alberi”, con periscopi all’interno, camuffati con vere cortecce, per l’osservazione dei movimenti di trincea durante la Battaglia di Artois. Alla fine dell’anno De Scévola riceve i gradi di comandante del Corpo di Camuffamento e comincia ad arruolare artisti, tanto che nel corso del 1917 la Francia ne assomma più di 3mila. Qualche nome? Jacques Villon, André Dunoyer de Segonzac, Charles Camoin e Charles Dufresne. Spennellano tutto quello che possono: veicoli e strutture. La tecnica si diffonde anche a navi e aerei. Il cubista André Mare è mandato a collaborare su vari fronti (anche quelli alleati inglesi e italiani), tanto da essere ferito da uno shrapnel in Piccardia, mentre monta uno dei suoi pali di osservazione considerati «invisibili».

Nella sua Autobiography of Alice B. Toklas, Gertrude Stein scrive che quando Picasso, dopo avere dato una soluzione per nascondere le ariglierie riconoscibili nelle perlustrazioni aeree, vede per la  prima  volta un cannone in camouflage mimetico, esclama: «C’est nous qui avons fait ça!», siamo stati noi a fare questo! E intendeva “noi cubisti”. Commentava il capitano-pittore De Scévola: «Allo scopo di deformare totalmente l’aspetto di un oggetto io dovevo utilizzare i mezzi che i cubisti invece usavano per rappresentarlo» e sottolineava quasi cinquant’anni dopo il critico d’arte Jean Paulhan, direttore della “Nouvelle Revue Française”: «Quei dipinti accusati di non assomigliare a niente, nel momento del pericolo furono i soli a essere capaci di assomigliare a tutto».

LEGGI ANCHE IL PDF SUL WEBSITE PIANO B – ARTI E CULTURE VISIVE: Il camouflage mimetico e il problema della rappresentazione pittorica

IL CUBISMO è un’espressione con la quale si è soliti rappresentare una corrente artistica e culturale ben riconoscibile, distinta e fondante rispetto a molte altre correnti e movimenti che si sarebbero successivamente sviluppate. Tuttavia, il cubismo non è un movimento capeggiato da un fondatore e non ha una direzione unitaria. Il termine “cubismo” è occasionale: nel 1908 Henri Matisse osservando alcune opere di Braque, composte da “piccoli cubi” le giudicò negativamente, e Louis Vauxcelles l’anno dopo le chiamò “bizzarrie cubiste”. Da allora le opere di Picasso, Braque e altri pittori vennero denominate cubiste. Si può tuttavia individuare in Paul Cézanne, un pittore che nelle sue solitarie sperimentazioni è stato in grado di prefigurare quelli che saranno lo stile, la visione e le tematiche cubiste. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

LEGGI LA SCHEDA SU WIKIPEDIA

IL CAMUFFAMENTO MILITARE si riferisce a qualsiasi metodo utilizzato per rendere meno rilevabili le forze militari alle forze nemiche. In pratica, è l’applicazione di colori e materiali utili a nascondere all’osservazione visiva (criptismo) o a far sembrare qualcos’altro (mimetismo) uniformi, mezzi e attrezzature militari. Il camuffamento militare venne utilizzato per la prima volta nei primi anni del 1800 dalle unità di cacciatori e fucilieri, che indossavano uniformi verdi o grigiastre per nascondersi al nemico. Prima di allora, gli eserciti tendevano a portare colori vivaci e audaci, per impressionare l’unità nemica, ma anche per agevolare l’identificazione delle unità militari nella nebbia prodotta dalla polvere da sparo dei fucili, per attrarre le nuove reclute, e per ridurre la diserzione. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

LEGGI LA SCHEDA SU WIKIPEDIA

AVVENIRE

Il camouflage, l’arte della guerra secondo i cubisti